martedì 23 gennaio 2018

Made in Italy - la nostra recensione del nuovo film di Luciano Ligabue




Siamo nella provincia emiliana, con l'Italia che, superando la Bulgaria, è da poco diventato il paese più corrotto d'Europa. In Italia vige secondo Max (un paterno Walter Leonardi), una "legge del furiere" (una parola "vintage" che ricorda i tempi del militare ai quarantenni) in ragione della quale chi si lamenta non fa niente e chi sta zitto e fa il suo lavoro, lavora anche per gli altri. Riko (uno Stefano Accorsi Freccia 2.0) lavora e "fa i botti" in un salumificio in cui l'integrazione con un lavoratore straniero come Pavak (il simpatico Jefferson Jeyaseelan) è tollerata finché lui fischia durante il lavoro, ma non si sopporta proprio se "fischia male". C'è molto stress nell'aria, ma Riko sembra uno tranquillo. Ha per moglie la bella, ottimista anche se un po' triste Sara (una splendida e struccata Kasia Smutniak), che fa la parrucchiera e lo tempesta ogni giorno di telefonate per sapere come sta. Ha un figlio giovane, entusiasta e premuroso come Pietro (Tobia De Angelis), che presto andrà al Dams ma che per ora non ne vuole proprio sapere di "scollarsi" da casa e "svilupparsi", come vorrebbe il padre, andando a esplorare il mondo. Perché  Riko lo sa che è un attimo farsi andare bene tutto e non vuole che Pietro, che è il primo della famiglia ad andare all'università, cada in questo errore e rimanga seppellito nel triste mondo della provincia. Da zero a dieci, si può dire che la vita attuale di Riko non vada oltre al cinque e mezzo. A lui non basta tutta questa routine e per questo frequenta quando capita "un'amichetta", per tenersi giovane, e tiene saldo un pugno di amici con cui, tra una partita a scopa e una festicciola tra famiglie a base di piatti etnici etiopi, girare insieme in auto. In quelle sere il mondo per lui, grazie a un Virgilio di classe come Carnevale, si fa tutto diverso e ci si può sentire davvero in libera uscita nel libero mondo. La notte, un po' mamma e un po' porca com'è, riesce a tenere Riko e i suoi amici tra le sue tette, guidandoli per le strade della provincia, tra nebbia e locali, cosce e zanzare, magari con l'occasione di conoscere qualche altra bella e pericolosa bambolina (che si spera non abbia con se una pistola). Riko però è già negli "-anta", dovrebbe smettere di fumare come è riuscito da poco, ma per troppo poco, all'amico Carnevale (Fausto Maria Sciarappa). Dovrebbe stare con la testa più a casa ed essere più fiducioso, guardare al fatto che essere diventato vecchio non è poi così brutto, ma lui si sente lì, sempre lì, lì nel mezzo, in bilico tra la vita da pischello e le responsabilità da adulto. Anche perché c'è dietro una brutta storiaccia che non si può dire. Intanto però vorrebbe ancora riappropriarsi delle casse dello stereo e dei dischi dei Simple Minds, che il figlio ha stipato nella sua mansarda-fortino da adolescente. Vorrebbe lasciare un po' il mondo dei salumi, con una mensa aziendale in cui sa tutto di salumi e dove non ci sono più i proprietari di una volta, ma in fondo finché è lì va bene. Vorrebbe magari essere bravo a fare qualcosa, come Carnevale, che è bravo tanto a dipingere quanto a non assumersi le responsabilità. Magari vorrebbe essere affidabile come il suo amico Max, ma Riko non è fatto come Max o come Carnevale e poi cambiare vita, testa e lavoro... per  fare cosa? "Perché siamo qui?" è la domanda che piomba come una spada di Damocle sulla vita di Riko e casualmente è anche il titolo del lavoro che Pietro sta realizzando in vista del Dams, una serie di interviste che sta coinvolgendo tutta la sua famiglia e amici. E quindi a saper rispondere concretamente a quella domanda, davanti a uno smartphone, anche per Riko, non si scappa. Ma come si fa a sapere "perché siamo qui" mentre lo spread va male e dicono che ti devi preoccupare, mentre al lavoro iniziano a fioccare i licenziamenti, mentre con Sara ci sono troppi sms strani, problemi irrisolti e storiacce che stanno per far scoppiare un bubbone che sta crescendo da anni? In più ci si mette pure l'amico "artista" Carnevale, che sta sbarellando tra brutte compagnie, brutti posti e brutte sostanze, con tutta una voglia matta di autodistruggersi che non conosce sosta. E Riko davanti a questo è fermo, impotente, immobile. Da trent'anni a insaccare salumi nel cuore della provincia, a voler essere ragazzino e a non sapere ancora cosa tenere o mettere via della sua vita, a lasciare che Sara parli per monologhi perché lui non sente di avere niente da dire. Poi però arriva quel momento lì, quello magico che può cambiare le cose e mettere tutto in prospettiva. Una botta in testa. A Roma Riko e amici si sentono di partecipare a un corteo, roba a cui non partecipavano da vent'anni, da quando pensavano che: "è giusto non essere d'accordo". Non arrivano nemmeno per le strade principali che vengono coinvolti in uno scontro tra manifestanti e polizia. Gli animi si scaldano, le parole si accendono, parte per sbaglio e paura un colpo in aria e in un assalto maldestro Riko finisce, complice una manganellata, direttamente al pronto soccorso. Sara, che forse c'ha un altro come di fatto pure Riko c'ha un'altra, arriva a Roma, ad accudirlo. Lo guarda negli occhi e lui si ricorda o capisce tutto in una volta che non è solo al mondo come aveva sempre pensato di esserlo. Sara dice: "Sto qui finché non ti dimettono dall'ospedale, poi torniamo insieme". Subito precisa: "Nel senso che torniamo a casa insieme", ma ormai la frittata è fatta, i due tornano a guardasi come una volta e magari, dopo "ottant'anni di prove" di una convivenza infinita potrebbero pure pensare a sposarsi. In più ci sono il giorno dopo in ospedale dei giornalisti che vogliono intervistarlo, perché il suo pestaggio ha fatto scalpore. Presto  arriverà forse il momento per Riko di raccontare tutto al mondo, che è sempre una telecamera più grande dello smartphone del figlio. Il motivo per cui è in ospedale, ma anche la vita di merda che fa, le paure per il futuro del figlio, i timori che la politica non possa ascoltare la gente comune, la sua voglia di credere nelle brave persone, nel futuro e di essere contento di essere una persona qualunque. Dirà tutto quello che ha dentro da anni e dirà finalmente, a tutti e a se stesso, "perché sono qui?". Ma saprà il mondo ascoltarlo? E questo grande evento gli cambierà poi la vita?



Era il 1998 quando usciva Radio Freccia, oggi siamo nel 2018 e siamo tutti un po' invecchiati, Ligabue e Accorsi compresi, anche se non si nota più di tanto. Ieri come oggi c'è Stefano Accorsi, alter-ego cinematografico di Luciano Ligabue, si trova davanti a un microfono acceso, cercando  di raccontarsi come il ragazzo semplice e un po' complessato della provincia. Probabilmente Riko, come Ivan Benassi, crede ancora, vent'anni dopo, alle rovesciate di Bonimba e ai riff di Keith Richards, ma di sicuro crede ancora anche al doppio suono di campanello nel padrone di casa che vuole l'affitto ogni primo del mese, crede ancora che ognuno di noi si meriterebbe di avere una madre e un padre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi da soli, crede ancora che la strana voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che in fondo hai voglia di scappare da te stesso e crede infine che da se stessi e dai propri problemi non si riesca a scappare proprio, nemmeno se si è Eddy Merckx. Freccia aveva scelto di non crescere, Riko però ci vuole provare, pur tra i mille sbagli e qualche "rimorso!!". Vuole crederci un po' di più e per davvero, pur nelle sue fragilità umane, nel futuro e nella famiglia. È un Ligabue più "mediato e meditato", meno "maledetto" forse, perché ha alle spalle vent'anni extra di vissuto da raccontarci e condividere da quel Radio Freccia che, come una bomba, colpiva le sale cinematografiche in un modo inaspettato ed esaltante. Negli anni poi Ligabue, oltre ai dischi e a un feudo tutto suo negli stadi e in un noto aeroporto dove i fan accorrono periodicamente a frotte, è riuscito, tra le tante cose, a uscire di nuovo al cinema, con Da zero a dieci, un altro film sull'amicizia e sulla provincia, in cui è riuscito a raccontare con malinconia e disillusione anche la Storia (la strage nella stazione di Bologna). Tra i tanti libri ha anche scritto un romanzo di fantascienza sociale interessante come "La neve se ne frega", tradotto in un bel fumetto ma purtroppo non (ancora) in un film, che è una diretta critica alla società gerontocratica che stiamo vivendo. Della sua band oggi c'è ancora solo capitan Fede Poggipollini, i tempi sono cambiati ma il Bar Mario non ha mai chiuso. 



Nel frattempo Stefano Accorsi, esploso proprio con Radio Freccia, si è un po' ricalcato nel personaggio di Ivan nelle sue esperienza mucciniane, ma ha saputo essere anche il roccioso commissario Scaloja di Romanzo Criminale, il cinico Leonardo Notte della serie TV 1992 e ci ha regalato di recente  il meraviglioso personaggio di Loris De Martino in  Veloce come il vento. 



Made in Italy riprende questo sodalizio tra il cantante e l'attore e la stessa formula da "film rock", carica di canzoni e di frasi ad effetto, dei paesaggi della stessa provincia emiliana descritta con i suoi riti e piena di anti-eroi, perdenti ma dal cuore d'oro. Questa volta alla base non c'è un suo romanzo ma un suo disco, l'undicesimo, uscito alla fine del 2016.  




Made in Italy è un concept album, il suo primo, che Ligabue descrive come: "Una dichiarazione d'amore frustrata verso questo paese, raccontata attraverso la storia di un personaggio". Il personaggio, la cui storia è raccontata attraverso i brani dell'album, è proprio Riko e complice un momento così brutto per la voce del cantante da farlo allontanare dagli stadi (oggi problema risolto) e la possibilità di avere Accorsi disponibile, si è riusciti in tempi brevi a realizzare il film, sempre prodotto dallo scopritore "cinematografico" di Ligabue, Stefano Procacci della Fandango. Come già detto sopra qui e là, c'è un po' aria di rinnovamento rispetto ai temi caldi della sua opera prima. Per gli amanti del Liga e del suo mondo che seguono fedeli da anni le sue opere funziona come un caldo abbraccio, un ritorno a casa quasi commovente, uno scoprirsi di nuovo ragazzini con in fondo ancora poche rughe in faccia. I detrattori saranno tutti invece concentrati sul solito adagio, su cui lo stesso cantante ha scritto pure un pezzo, del dubbio se "è come prima / no si è montato" a cui di conseguenza "ognuno può scegliere la sua verità". Perché  questo film è, genuinamente, dal soggetto alla scrittura alla direzione e alle musiche un prodotto del Luciano Ligabue di oggi al 100%, con tutta la semplicità e potenza dei suoi brani rock, con tutto il suo modo diretto e accattivante di dire le cose. Ligabue si conferma un buon direttore, stilisticamente vicino a Muccino ma più rock, capace di tirar fuori dai suoi attori personaggi vissuti e cool, ripieni di battute così memorabili da voler correre a scrivere di volata sulla Smemoranda. Capace di gestire ogni sequenza per ritmo e peculiarità della fotografia come un videoclip, attento alla necessità di farci ridere e insieme farci piangere. Ogni tanto i più attenti potranno, guardando le scene, anticipare i brani del concept album, prima che le note di fatto partano. Questo significa che il "patto" con i fan del disco funziona ed è un effetto interessante da vedere in sala, dove ogni tanto partono dei coretti o anche solo si sentono battere i piedi a ritmo delle canzoni. Non è un musical, le canzoni sono però un elemento narrativo centrale e riescono ad arrivare quasi sempre al momento giusto, a volte anche solo in forma strumentale. 


Ma com'è questo Ligabue che parla di disillusione e famiglia a vent'anni da Radio freccia? È meno cupo, come dicevamo sopra, ma è più attento alle sfumature, ai colori e agli odori della vita. C'è un ponte sul Po, freddo e gelido durante una notte disperata di pioggia e paure. C'è l'aria fresca di una serata romana vissuta tra amici a cavallo di monoruota elettrici, a passeggio tra monumenti storici. C'è il fetore, che spinge dei vicini di casa a interessarsi di una persona che non si vede da qualche giorno. C'è il profumo di un prato appena tagliato abbinato ai sapori buoni della tavola e alle risate degli amici di un pranzo domenicale. Ci sono i prosciutti, che impongono la loro profumata e un po' invadente presenza dop romagnola fin da inizio pellicola, quando un prosciuttone insaccato si colloca alle spalle, come monito di un destino già segnato, ad uno Stefano Accorsi che si improvvisa ballerino "vintage" con indosso una camicia rossa a frange sbriluccicanti, quando leggenda non confermata vuole che Ligabue come primo lavoro fosse ragioniere in un salumificio. Ci sono nel bilancio finale immagini di un'Italia più carica di paure che di gioie, specchio di una società percepita con forte voglia di cambiare ma ancora fragile e che di certo non crede più nelle favole. In questo ritrovo la vena più malinconica del Liga, quel senso agrodolce di cui sono pregni tutti i suoi lavori ma che è sempre supportato dalla speranza che spesso le relazioni umane diventino e possano restare l'unica, vera e insopprimibile rete di salvataggio dei giorni nostri. Ligabue trova infatti il tempo di parlare anche di anziani malati, di matti del paese, di drogati del gioco d'azzardo che possono salvarsi solo se prima vedono il fondo, di un mondo dei giovani visto con la paura che in un momento tutto possa degenerare irrimediabilmente. Made in Italy è un film che consola, pur rimanendo di fondo molto amaro ed è una pellicola che mi sento di consigliarvi, soprattutto se per voi il Liga è ancora "come prima", come ai tempi di Balliamo sul Mondo. Ma anche se siete tra i detrattori penso che il film potrebbe piacervi.  
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