martedì 11 marzo 2014

Rush

In Bluray e DVD

Lo sport è da sempre lotta tra se stessi e altri uomini. Più la lotta incalza e si mettono in luce due o più campioni a contendersi un titolo, più il pubblico esulta, rivive geneticamente l'arena dei gladiatori aspettando la sconfitta-morte (figurata) di uno dei contendenti, ama o odia. Così il pubblico diventa anch'esso una variabile, amico o avversario sempre pronto a far sentire la sua voce. Giudica anche la vita privata degli atleti, accusa e si indigna per un calo di rendimento, fischia il campione che un momento prima idolatra. Perché non si ragiona più in termini terreni, si parla di “miti” e il pubblico si sente autorizzato a parlarne non riferendosi a uomini, ma a medaglie vinte o perse.
Due sportivi, due piloti. Hunt e Lauda. Il primo un nome che molti non appassionati ai giorni nostri fanno fatica a collocare, il secondo uno dei massimi uomini giunti a pilotare una Ferrari. Bandiere di uno sport, la formula 1, che non a caso è soprannominato il circo dei motori, spettacolo che fa tappa in tutto il mondo e da sempre affascina e vende. Vuoi per la doppia competizione tra uomini e motori, due mondi che non sempre riescono insieme a comunicare, vuoi per la sensazione di pericolo costante che fa di ogni gara una possibile sfida contro la morte, che un tempo giungeva con sinistra costanza e che i più cinici aspettavano di vedere, vuoi per il glamour fornito dall'“altro” circo, quello delle modelle-ombrelline, delle star e degli sponsor che sempre presenziano e sfilano tra una gara e l'altra (e che in Italia, perché sono stronzi o perché sono miopi non ci fanno mai vedere... ma inquadrateci le ombrelline, chissenefrega dell'inviato trombone ai box che spara banalità!! Fine sfogo...). Oggi i tempi sono cambiati, c'è molta più sicurezza nelle gare automobilistiche e motociclistiche. Oggi c'è anche molta più noia nel seguire integralmente certe gare (colpa dei cronisti stranoiosi rai per lo più e della endemica mancanza di inquadrature sulle ombrelline... questo l'ho già detto ma va ribadito...), ma ripeto, vediamo questo dato anche in positivo. Il rischio rimane e anche di recente gli appassionati delle due e quattro ruote piangono vite spezzate di giovani piloti. Ma tutto continua, la voglia di velocità, bene interpretata anche dal titolo di questo film, che inneggia al vivere la vita “di fretta”, è una pulsione irrefrenabile tanto per i piloti quanto per gli spettatori.

La sfida tra Hunt e Lauda è quasi uno spartito codificato sull'agonismo motoristico, permette agli appassionati di rivedere attraverso queste vicende migliaia di altre sfide intraprese da persone diverse quanto incredibilmente simili. Perché il mondo delle corse è spesso anche drammaturgia.
Hunt era percepito come guascone, eccessivo, spericolato, donnaiolo, l'anima della festa. Lauda dava l'impressione del tipo schivo, quasi antipatico, preciso, un po' misogino. Non che i due uomini fossero solo questo, ma il pubblico attraverso i media del tempo li vedeva così e la pellicola sposa l'impressione attuando la classica tecnica di sintesi drammaturgica. Così attraverso Hunt e Lauda vengono incarnate le due “maschere” tipiche del pilota. Da un lato lo spericolato, in grado di imprese impossibili in quanto benedetto dall'incoscienza e spinto dal cuore. Dall'altro il calcolatore, l'uomo che agisce e migliora basandosi sulla conoscenza tecnica delle specifiche del mezzo, che riconosce e memorizza tutte le curve, l'uomo di cervello. Lo spericolato in genere è quello che il pubblico più ama, rapito dall'imprevedibilità che questo scatena. Il calcolatore in genere è il rompipalle che, se benedetto dall'auto più potente, è in grado di uccidere la competizione già al secondo giro, distaccando di chilometri ogni concorrente. Ma la vita è uguale per entrambi, ugualmente pronta a elargire gioie e dolori che vengono sempre amplificati sotto la lente di ingrandimento della celebrità. E se la vita è imprevedibile, incredibilmente quello che è il proprio rivale è anche l'uomo che più assomiglia, che può essere l'amico più sincero e disinteressato.

Mettere in scena questo mondo non è cosa facile. Perché ci sono i motori da un lato, da rendere credibili e scattanti con gli effetti speciali, e i sentimenti dall'altro, a cura magari di bravi attori che possano dare il giusto peso ai primi. Il rischio “telenovelas” è altissimo e molte pellicole che hanno affrontato il tema “donne e motori” ci sono cadute. Laddove la via più comoda è mettere al centro i sentimenti e i dialoghi e mettere del tutto da parte le meccaniche di gara, risparmiare sugli effetti e relegare le competizioni alla sporadica visione della scaletta delle tappe di una stagione, un paio di ricostruzioni obbligatorie e poco più. Specularmente il rischio “documentario” è ugualmente alto. Laddove venga messa in soffitta tutta la drammaturgia per inquadrare solo curve (di fatto una componente drammatica c'è anche in Fast'n'Furious). Equilibrio è la parola chiave, unita in questo caso a una robusta e realistica cornice storica. A fare film belli sulle corse e piloti ci hanno provato in molti, ci sono riusciti in pochi. Io ricordo ancora con affetto Joe Tanto (Driven.cit.), ma mi rendo benissimo conto dei mille limiti della pellicola in cui è protagonista. Per comprendere questo mondo non basta passione, occorre un innato occhio critico-storico. Per questo ho applaudito da subito il fatto che a dirigere una pellicola sulla formula 1 fosse Ron Howard. Ho ancora negli occhi il suo Apollo 13. Mi ricordo ancora la mia totale ignoranza sui fatti dell'Apollo 13 e una mia amata compagna di classe che mi ha “spoilerato” il finale (che credo fosse noto a tutti) rovinandomi la pellicola. 

Pellicola bellissima, ben recitata e storicamente ricostruita, a perfetta sintesi dell'avventura spaziale americana. Se la strada di Howard è lì descrivere “un mondo da un episodio”, il regista sceglie la stessa tecnica per Rush. Per offrire una summa delle storiche rivalità tra piloti si focalizza sulla “rivalità di un anno” tra Hunt e Lauda, potendo così fotografare al meglio uno specifico momento storico, la seconda metà degli anni '70 e nello specifico la stagione automobilistica del '76, riproducendo determinati avvenimenti e determinate gare in un credibile, solido inquadramento. Hunt vs Lauda. Simpatico contro antipatico, bello contro bruttino, mondano contro solitario, biondo contro moro. Hunt e Lauda sono in tutto e per tutto speculari (l'ho già usato questo termine e credo lo farò ancora) al punto da essere archetipi. Una scelta perfetta già sulla carta.
La scelta di questi nomi specifici permette di parlare molto anche del mondo che si trova al di là dell'abitacolo da gara perché raccontare la vita di questi piloti lo permette. Così vediamo come lo sport come business non possa vivere senza gli sponsor a veicolarlo e condizionarlo. Vediamo come le fan e divette si buttino sui campioni tanto per la luce mitica che emanano, tanto per l'incoscienza che li spinge a giocare costantemente con la morte, quanto per la copertina e la fama riflessa che comporta uscire con una star. Vediamo però anche il contrario, come un pilota perdente si ricavi un margine di fama proprio in quanto esce con una star del cinema. Assistiamo alle limitazioni che la vita del pilota comporta, come impossibilità di vivere qualcosa di diverso dalle gare per via di un lavoro totalizzante sui motori a cui seguono spesso crisi in ambito familiare. Abbiamo l'occasione di cogliere le motivazioni di chi sceglie di vivere a fianco di un pilota che rischia la vita: tanta fama, ma anche notti insonni. 

C'è anche l'occasione di riflettere sui pericoli connaturati con questo sport e spesso sottovalutati, laddove anche con la prospettiva del “senno di poi” diamo un peso diverso a quelli che per i fan sembrano solo capricci, come la volontà dei piloti di sospendere una gara per maltempo, osteggiata dai colleghi in quanto significa principalmente, al di là di ogni possibile-prevedibile rischio, subire una perdita economica. Il cinismo della stampa. L'amicizia virile tra piloti. I fan italiani. Perchè dico i fan italiani? Perché è sempre la solita iterazione su pellicola delle buffe-assurde amenità che gli stranieri attribuiscono a noi italiani. Roba da prendere a schiaffi le guide turistiche, che illustrano ai vacanzieri un mondo che sarebbe il nostro, ma che non esiste nella realtà. Roba da sorriderci sopra per non piangere, laddove in quel di Trento nella metà degli anni '70 l'italiano medio è rappresentato da una coppia di baffuti, ruspanti (e simpaticissimi) siculi a bordo di una Duna (o simile) tenuta insieme dall'adesivo da pacchi. Probabilmente nel bagagliaio era presente il mandolino di ordinanza, perso in un taglio di pellicola.
Tutti temi, che sfilano nel contesto di scenografie e costumi sgargianti seventy, dettagliati e accurati, catturati da una fotografia luminosa ma non invadente. A questo si unisce un lavoro magistrale per le ricostruzioni delle corse automobilistiche. Sfrecciano su circuiti storici copie fedeli delle macchine dell'epoca in mano a piloti professionisti e gli effetti speciali, il ritmo del montaggio e le “coreografie di gara” offrono un autentico spettacolo visivo.

Pur nella scelta di “sintesi” il film, già da quanto sopra esposto, appare quanto mai complesso e “grosso”. Riprodurre tutte le gare e gli avvenimenti del '76 di Hunt e Lauda è impossibile e improponibile a meno di non farci una miniserie di 13 puntate. Ugualmente affrontare tutti i temi esposti necessita di dedicare un congruo tempo dagli stessi. Howard fa i miracoli e si destreggia con grande talento in tutti i campi supportato da un magistrale cast di attori. Magistrale perchè pesca dallo star system gli interpreti più adatti a incarnare al meglio i personaggi. Chris “Thor” Hemsworth interpreta Hunt. È un attore specializzato in ruoli da "figaccione" da tenere d'occhio. Quasi un caratterista, non profondo quanto Brad Pitt, ma con la faccia e il mood giusto per essere ottimo per un numero considerevole di ruoli: dall'eroe all'amante, dallo sportivo alla vittima sacrificale in un film horror. Fisico statuario, occhi azzurri e sorriso che fa partire l'ormone alle donne, Hemsworth non è privo di autoironia e in questo travalica i limiti del semplice “belloccio”, risultando anzi piuttosto simpatico. In Rush mette in luce anche (da me) inaspettate doti drammatiche che me lo fanno vedere ancora puù simpatico e si vuole inevitabilmente bene al suo personaggio. Peraltro è decisamente più affascinante dell'Hunt originale, un omone muscolare ma dal nasone pronunciato e dall'improbabile caschetto biondo (ma che all'epoca usava). Daniel Bruhl interpreta Lauda. L'attore è per lo più noto per Goodbye Lenin e una filmografia prettamente europea, ma ha fatto capolino anche in Bourne Ultimatum e Inglorious Basterds di Tarantino, dove ha vestito i panni dello sfortunato in amore soldato-eroe-nazionale Fredrick Zollen, un ruolo da antologia. Bruhl è versatile e i personaggi che interpreta sono diversissimi l'uno dall'altro, tuttavia il suo Lauda è deciso, convincente, ossessionato e dolorante, una figura quasi Shakespeariana. Ma a mio avviso eccede in cupezza e antipatia, discostandosi un po' dall'originale. Nel suo caso il trucco lo rende perfino più bruttino di Lauda, ma voglio pensare che sia un effetto ricercato nell'economia della storia. Olivia Wilde è una Suzy Miller, starlette compagna di Hunt, più complessa e raffinata di come a primo impatto appare e nelle sue brevi scene riesce a dominare la scena. Alexandra Maria Lara, che interpreta Marlene Lauda, è altrettanto brava e trasmette vividamente nello spettatore le gioie e angosce del suo personaggio. Menzione anche per Pierfrancesco Favino nel ruolo di un Clay Regazzoni compagnone, profondamente umano e altruista. È un peccato che il suo ruolo sia così piccolo, ci sarebbe piaciuto vederlo di più.


Rush è quindi una bella pellicola che regala un ottimo intrattenimento e lascia qualcosa nello spettatore. Non è esente da difetti, primo fra tutti una certa compressione del narrato che lascia con la voglia di vedere di più, conoscere maggiormente le vicende. Fosse stata una miniserie di 13 episodi sarebbe stata perfetta, ma non possiamo certo lamentarci. Howard, allontanate da sé le trasposizioni dei libri di Dan Brown sembra rinato e pronto a nuove sfide. E speriamo che il suo progetto a lungo cullato dell'adattamento della saga della Torre Nera di King prenda effettivamente forma. 
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