lunedì 24 giugno 2013

Il grande Gatsby



Il giovane di belle speranze Nick Carraway (Tobey Maguire, qui un po' ambiguo bravo ma sovraeccitato, indimenticato in Seabisquit e unico vero Spiderman cinematografico... anche perché l'ultimo Spiderman semplicemente “non è Spiderman”, ma ne riparleremo con analisi e motivazioni, pur opinabili, che saranno debitamente argomentate in un pezzo ad hoc), accantonata in nuce la carriera di scrittore in virtù di una professione meno appagante ma molto più remunerativa, costruisce il suo piccolo nido quattro metri per quattro nel Long Island, a due passi da New York, nella ridente cittadina di West Egg. Un villino grazioso se non fosse l'unica mezza baracca della costa, assolutamente imparagonabile alla magione del suo dirimpettaio, una sorta di castello medioevale fetish nel quale si tengono costantemente degli after hours paura con centinaia di ospiti e tutta la città di New York sempre invitata. 
Non fosse per il figume quasi soffocante che tale maniero del peccato irradia, sarebbe da chiamare costantemente la polizia per rumori molesti ma, si sa, il Long Island non è abitano dai misteriosi figuri che dimorano nei pressi di San Siro, quelli che chiamano l'amministratore per lamentarsi se Springsteen canta oltre un minuto da mezzanotte e loro, che ascoltano gratis, non riescono a dormire. Sull'altro lato della costa risiede in un villone anche Daisy Buchanan, la sua affascinante e aristocratica cugina (interpretata dalla bellissima ma qui un po' imbalsamata Carey Mulligan, attrice dalle grandi potenzialità già vista nell'ottimo Drive), per la quale è pressoché impossibile non avere una mezza cotta. La stessa è sposata con il più classico e scontato idiota-coi-soldi, l'anaffettivo-possessivo aristocratico decaduto Tom (interpretato appropriatamente da Joel Edgerton, ma, anche qui, molto più bravo in Zero Dark Thirty, Warrior dove interpretava il fratello di Tom ”Bane” Hardy e meglio pure nel prequel de La Cosa) decaduto anche come campione di polo, rissoso, fedifrago, violento, inquinante, tamarroso, superficiale, logorroico, diarroico e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia Tom a Nick non sta antipatico, in fondo il primo è un buon amicone con cui condivide un gioioso puttan tour nella Grande Mela. Invitato nel villone della cugina, il giovane Carraway incontra anche la campionessa di tennis Jordan Backer (interpretata dalla bellissima, sublime, seducente stra-figona Elizabeth Debicki), per la quale perde all'istante subito la brocca, nonostante la stessa non paia ugualmente interessata e invece cerchi da Nick notizie sul misterioso proprietario del castello medioevale fetish. 
Il signore del maniero viene chiamato Gatsby (Leonardo Di Caprio, attore che sempre, qualsiasi cosa faccia, mi fa sempre e inesorabilmente cagare. Credo però sia una questione di feromoni. Di Caprio oggettivamente non è un cattivo attore, anzi! Ma a me suscita sempre una inspiegata e atavica antipatia, probabilmente a causa del suo dopobarba... pertanto chiudo tra le barrette di questa parentesi la querelle: Di Caprio è bravo e qui, altri mi confermano fortemente, recita anche bene. Io lo odio, ma è un'altra storia. Ok ho finito... no, dai, ma come fate a d apprezzare quella faccia da perenne bambolotto imbronciato? Ok, ok, ho finito...) è un fanta-miliardario che da dove tiri fuori i soldi non è chiaro (questa l'ho già sentita), organizza maxi-feste (anche questa l'ho già sentita) e non è molto alto di statura (appunto). Contrabbandiere? Mafioso? Alieno? Spia? Mercenario? Idraulico? Nessuno sa bene cosa faccia Gatsby e Nick, vivendoci a 8 metri, potrebbe giustamente indagare. Magari la tennista, mossa a pietà... Ma mentre Nick cerca Gatsby, anche Gatsby cerca Nick e dal molo del suo castello cerca di imbrigliare idealmente con il pugno della mano la luce verde della mega villa di Tom e Daisy. Ma non vi voglio dire altro su Gatsby, voglio che lo scopriate da soli magari assaltando le pagine di uno dei più grandi classici della letteratura americana. Io lo trovo una specie di novello Icaro, che con ali fasulle (corrotte) cerca di avvicinarsi al sole (alla purezza), ma c'è chi ha tutta un'altra idea.
Torna Baz Luhrmann, dopo il colossale zuccherino romanticoso Australia, dopo il barocco retro-futurista Moulin Rouge, dopo il neoromantico Romeo + Giulietta (ecco un film in cui Di Caprio non mi dispiace, come non mi dispiace in The Aviator, guarda tu a ripensarci...). Per l'adattamento dell'opere di Fitzgerald sceglie un'impostazione a “bomba colorata” che ricorda in più momenti proprio le carrellate furiose e vertiginose di Moulin Rouge e che sfrutta con intelligenza anche la nuova tecnologia 3d. Per la prima buona mezzora la pellicola è un inno gioioso al mondo “del futuro” dei primi anni venti del novecento. Tutto è frenetico e veloce, anche se ai margini ben chiara e sottolineata è la “bolla” che determina i confini dorati e lascia fuori le periferie già depresse. A osservare le brulicanti formiche del progresso della luccicosa New York, le pubblicità di una ditta di occhiali, occhi appesi ai muri che osservano, scrutano e in parte giudicano, pur da finti “idoli”, frutto di una febbrile corsa che ha perso nel mentre i valori, il mondo che sta ai loro piedi. 

Sì, quasi i cartelloni “Obey” del carpenteriano Essi Vivono, che però qui sottolineano il lato conservatore, o bigotto, che si nasconde negli animi dei personaggi, pronti a ubriacarsi di futuro alla sera, ma allo stesso modo a distaccarsene con ribrezzo e disgusto alla mattina. Rapito dalle luci colorate, il pubblico in sala gode di tanto sfarzo, così come dei fuochi d'artificio, coriandoli e immagini di lusso gioioso che vengono letteralmente ficcate nei loro occhi a forza. Tutto perfetto anche se fin troppo accelerato, più o meno fino al palesarsi in scena di Gatsby, con qualche strascico anche successivo, è una unica corsa sulle montagne russe, un autentico assalto visivo-sonoro alle povere capacità percezionali degli spettatori che, muniti degli occhialini 3d, aspettano inevitabile che prima o poi il vomito arrivi per le troppe scosse (ma in senso buono, ovvio).
 Poi il film trova il suo ritmo, compensa eccessi scenografici e cut indiavolati, movimenti meno veloci di camera permettono di apprezzare la recitazione dei personaggi, la pellicola comincia a respirare e possiamo riflettere sulla bontà complessiva dello script nel descrivere personaggi dalla forte accezione iconica, dal buon carisma, anche grazie alla buona (ma mai ottima) interpretazione, ai costumi e modi di ricercata storicità in coniugio con un pizzico di spirito moderno. Parrebbe che non solo di estetica è fatto il Grande Gatsby. È proprio allora, quando tutto gira, che si fanno ahimè largo i limiti di uno scritto matriciale che regala molto, ma non troppo e lascia molti personaggi “al palo”, non riuscendoli a sviluppare a dovere. La storia si potrebbe banalizzare a poche battute di sintesi, cessato il vorticare. La “massa” si riduce ad uno sterile unico personaggio e chi è davvero protagonista si conta sulle dita di una mano monca e non “mutando” mai banalizza il tutto: l'intreccio è troppo prematuramente chiaro e fin troppo succintamente definito. Così il film si ferma, ingolfa-arranca, cerca di ri-definirsi facendo ampio uso del flash-back alla ricerca di un'anima nera latente, ma che fatica a farsi palese, non graffia quanto dovrebbe e mutua a suggestioni meglio espresse altrove (vedi Il talento di mr. Ripley). Questo percorso narrativo vuole anche essere simulacro degli anni venti del novecento e della successiva crisi del '29 che portò New York dalle stelle alle stalle (emblematico l'aereo acrobatico che solca la grande mela, prima in ascesa e poi in picchiata sui palazzi) e di cui i pochi personaggi in cerca d'autore di Fitzgerald sono ovviamente simbolo-vittime. Ma anche qui manca qualcosa e se nella parte finale tutto si movimenta di nuovo, tornano in gioco le ragioni stesse dello scritto come della pellicola il tutto lascia quasi, assurdamente, indifferenti. Colpa di personaggi che, sebbene sfolgoranti al colpo d'occhio, non riescono a narrarsi oltre l'icona che rappresentano, non riescono a esserci davvero vicini. E poi c'è la scena della notte al molo. Qualcosa di semplicemente indecente per collocazione temporale e toni, così male espressa da essere in grado (con me lo ha fatto) di fare disinnamorare della pellicola. 
Da grandi poteri derivano gradi responsabilità (Spiderman cit.) e la pellicola di Luhrmann alla forza muscolare dell'impianto, al potenziale dei personaggi e dei luoghi non lega la giusta innovazione che permette di assaltare oltre all'occhio anche il cuore dello spettatore. Sbilanciato, eccessivo ma nonostante tutto affascinante, il tutto ha infine l'aspetto di un cartellone pubblicitario americano anni 50 sui cereali: bello, ma un po' vuoto. Accettato questo, il film rimane godibile e degno di essere rivisto, vuoi solo per colori e montaggio, costumi ed effetti, musiche e scenografie e quant'altro affascina l'occhio e l'orecchio, se non accarezza il cuore. A onor del vero molti in sala erano comunque contenti dello spettacolo pertanto, nonostante tutti i caratteri sprecati nella scrittura-lettura, non me la sento si sconsigliarne la visione. Colpa del mio odio per Di Caprio...
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