mercoledì 24 aprile 2024

Tatami - una donna in lotta per la libertà: la nostra recensione dell’adrenalinico, eroico e drammatico film sul judo di Guy Nattiv e da Zar Amir Ebrahimi, con protagoniste le straordinarie Arienne Mandi e Zar Amir Ebrahimi

Georgia dei giorni nostri, mondiali di Judo. 

Nella squadra femminile della Repubblica Islamica dell’Iran gareggia la giovane e determinata Leila (Arienne Mandi), assistita dalla sua allenatrice, la rigida e silenziosa Maryam (Zar Amir Ebrahimi). 

Il viaggio in pullman dall’Iran è lungo e avvolto per lo più nel deserto e nel buio. L’atleta lo affronta cercando di rilassarsi, con nelle cuffie una playlist di musica pop creata affettuosamente tutta per lei dalla sua famiglia. Leila, dopo una serie di banchetti e presentazioni pubbliche piene di applausi e riconoscimenti, si sente quasi schiacciare dal peso di tutta la fiducia che ripongono in lei, la federazione come la sua famiglia. 

I parenti e gli amici sono già pronti per fare il tifo davanti alla tv, ma sembra quasi che tutto il paese stia trattenendo il fiato, come se fosse un momento di straordinaria importanza che va al di là dello sport.

Maryam durante il lungo viaggio trattiene ogni sentimento ma sente di essere sicura del risultato: Leila è forte quasi dieci volte le avversarie e se rimarrà concentrata potrà vincere ogni incontro, anche in pochi secondi. 

All’arrivo nello stadio, la prima doccia fredda: Leila alla pesatura è oltre il limite di categoria di mezzo chilo e forse non potrà gareggiare. 

Ha solo un’ora per sistemare le cose e la ragazza, con rabbia e determinazione, si lancia nella palestra comune, diretta alla cyclette, dove tra dolore, sudore e lacrime, quasi spogliandosi del tutto di ogni energia, riesce a perdere settecento grammi. Incazzata quanto spettinata e arruffata, è ora pronta per la lotta. 

Davanti a sé tutto il suo mondo si riduce al quadrato delle gare: il tatami. È lì, al centro della scena, tra avversarie di tutte le nazioni e giudici di gara, che dimostrerà il suo valore. 

Le sfidanti sono forti e fin dal primo scontro di qualificazione mostrano i denti, sfuggono agli attacchi alle gambe, kimono e alla cintura, evitano gli assalti e dimostrano stabilità d’acciaio. L’esito di ogni incontro non risulta mai semplice, perché non lo è: tra prese a tenaglia, proiezioni e leve articolari, tutte vogliono la vittoria, non arretrano né si arrendono. 

Leila avanza, raccoglie dolori e stanchezza come medaglie, procede dritto dimenticandosi dei lividi e di tutto il mondo che si trova al di fuori del tatami, quasi sentendo nelle orecchie il tifo del marito e dei parenti.

Maryam, a bordo ring, a dispetto del suo atteggiamento sempre composto e impeccabile,  ringhia a ogni errore e impartisce ordini. È severa quasi al punto da apparire spietata con la sua protetta. Anche lei ha “fame di vittoria” lo fa per dimenticare quando in passato era arrivata vicino alla vetta, ai campionati, prima che un infortunio fermasse per sempre la sua vita agonistica. 

Leila vince veloce come era previsto, ma qualcosa di inaspettato inizia a muoversi oltre il tatami. 

Lo vuole lo Stato. 

In Georgia si è qualificata per le gare anche una atleta israeliana e dall’alto hanno deciso, in modo incontrovertibile, assoluto e intrattabile, “sacro”, che un incontro contro di lei, per l’Iran, non è auspicabile per questioni politiche. 

La direzione vuole obbligare l’atleta a ritirarsi, subito, promettendo che ci saranno altre occasioni per dimostrare il suo valore. Maryam riceve la telefonata e prova a parlarne con Leila con la morte in cuore, anche lei in passato si era trovata in una situazione simile e l’Iran ha più volte ritirato le sue atlete per motivi di questo tipo, al punto da far sollevare sospetti a livello di regolarità sportiva. 

Maryam spiega e Leila rimane incredula: perché la hanno supportata e fatta partire festanti fino a poche ore prima? Poi cerca di mediare: Il campionato è “mondiale”, ci sono ancora tanti incontri e la possibilità concreta di incrociare proprio l’israeliana è quantomeno remota, anche solo seguendo l’andamento del tabellone. L’israeliana poi non è favorita, potrebbe lasciare ai primi turni la competizione. 

Leila vuole andare avanti, Maryam per il momento capisce che non ha senso fermarla. 

L’Iran vince ancora e ancora, riscuotendo molto interesse anche da parte degli osservatori internazionali. Purtroppo va avanti anche Israele. 

Dopo ogni vittoria, lo Stato Iraniano telefona a Maryam, ma non per complimentarsi. Il tono è sempre meno accomodante. Questa “ostinazione a non ritirarsi” parla per loro di un inaccettabile affronto alle autorità religiose da parte di un paio di donne. Si ventila la fine della carriera per l’atleta insubordinata, poi si minacciano “conseguenze indesiderabili” per il futuro di entrambe. 

Infine si arriva alle vie di fatto. 

Lo Stato prende in ostaggio la famiglia dell’allenatrice Maryam: le mostra da un cellulare il padre con dei fucili davanti al volto. Il padre la maledice e rinnega, la supplica di sottomettersi alla decisione. Presto lo Stato riuscirà a fare lo stesso con la famiglia di Leila, questione di minuti. 

Tra gli spalti del palazzetto dello sport iniziano a farsi largo loschi figuri governativi, magari pronti a strangolare personalmente le due donne in caso di vittoria. La ragazza deve smettere subito di combattere anche se sta vincendo, se tutto l’Iran con lei, di fatto, sta vincendo. 

Un tentativo disperato di farsi squalificare per commozione cerebrale, prendendo a testate lo specchio del bagno, non risulta credibile. Tuttavia qualcuno sembra intenzionato a schierarsi dalla parte delle due atlete, fornendole una via d’uscita.


Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi confezionano un film potente e  doloroso, con al cento la vita di due donne coraggiose quanto profondamente umane.

È un film sul mondo del judo, rappresentato in tutta la sua dinamicità agonistica e velocità da un cast tecnico di primissimo livello. Le professioniste del combattimento coinvolte sono in grado di esprimere sempre con assoluta chiarezza e competenza le dinamiche di lotta. Un montaggio veloce e accurato rende sempre diverso quanto intellegibile ogni confronto, il reparto sonoro in presa diretta conferisce la giusta spazialità e profondità all'azione. Lo sport diventa vivido, quasi frenetico, rabbioso come epico: la pellicola è perfettamente ascrivibile tra i migliori film d’azione di stampo “sportivo realistico”. 

Una fotografia quasi in bianco e nero, unita a una scenografia semplice fino all’essenziale, rende il tatami, quanto i luoghi limitrofi al torneo, simili a uno “spazio a parte”: una zona fuori dai colori e sfumature del mondo. Un “altrove”, agonistico quanto democratico, dove tutti sono uguali per uniforme e spazio sulla scena, uniti da ritualità di stima e disciplina. Un luogo in cui si può dialogare in modo universale, proprio grazie allo sport. 

Il mondo esterno e i suoi colori ocra, caldi ma sbiaditi, presto interferiscono con la sacralità del tatami e del torneo, conferendo nuove sfumature al film, altrettanto riuscite.

Tra telefonate e flashback sempre più invadenti, ci troviamo spostati dalla scena principale al retroscena, dalle luci dello sport alle ombre interiori. I personaggi sono costretti a fare i conti con una realtà più dura delle botte, soprattutto perché avvertita come rigida, assoluta: un luogo in cui ogni possibilità dialogica muore.  

Lo sport diventa di colpo “altro”, quando forse narrativamente, nelle intenzioni iniziali “di chi comanda”, doveva essere per lo più una parentesi frivola. 

Lo sport diventa prima vittima di una “politica prudente” e poi, in rapida escalation, mezzo per “un’eresia”, in quanto possibile atto di ribellione a un comando “di principio”. Non importa più l’esito dell’incontro, il destino delle atlete o delle loro famiglie: si deve reprimere.

Quasi in tempo reale assistiamo quindi agli scontri sul tatami, esaltanti quanto splendidamente ripresi, mentre tra un incontro e l’altro si dipana una “tragedia greca” sotto forma di thriller psicologico/politico, in cui l’esito fino alla fine è incerto, con la vita delle due protagoniste sempre più a rischio . 


I personaggi interpretati dalle bravissime Arienne Mandi e Zar Amir Ebrahimi, riescono, con i loro corpi contratti e feriti e con la loro mente sempre messa a dura prova, a comunicare un intero universo di passione, impegno e sofferenza. Possenti quanto fragili, sono chiamate a dover “resistere o perire” a un deus ex machina profondamente sordo ai loro ideali positivi e impegno. Un deus che le “vuole e  impone” come pedine sacrificabili, “per un bene più grande”, seguendo logiche ineluttabili, che appaiono prima di tutto tragicamente ingiuste e infine quasi sadiche.  

Tatami forse parte come un episodio di Rocky, Warrior di O’Connor o Million Dollar Baby di Eastwood, ma arriva presto a giocare nel campo di Rollerball di Norman Jewison. Con la variante significativa che se il capolavoro con James Caan era di fatto un’opera di fantascienza distopica, la pellicola di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi parte da situazioni reali ben documentate, sulla base delle quali sono nati sistemi di sostegno agli atleti internazionali come la “squadra degli atleti rifugiati”. Tatami, in un modo originale quanto rispettoso, riesce a parlarci anche di queste realtà internazionali e di come agiscono. 

Tatami in un modo asciutto, e più universale di quanto si voglia credere, ci parla di come il ruolo della donna sia ancora contratto in molte parti del mondo. Ci parla di come la politica possa di fatto non seguire gli interessi delle persone che pur operano per il successo nel mondo del loro paese. 

Tatami, come faceva Rollerball, sottolinea quanto lo sport di fatto possa assumere un ruolo importante nella società odierna, a livello di simbolo, di “nuovo eroismo”. Un messaggio che Tatami condivide anche con il film sulla ginnastica artistica Olga, anche lui tratto da una storia vera. 

Tatami un film che vale la pena di vedere tanto se siete appassionati di Judo che di diritti umani. 

È un film importate e ben recitato, che sa scorrere via in un attimo e fa uscire dalla sala con la voglia di “cambiare il mondo”: magari iscrivendosi a una palestra per praticare judo. 

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sabato 20 aprile 2024

Monkey Man: la nostra recensione dell’action movie “spirituale” scritto, diretto e interpretato da Dev Patel

India. In un piccolo villaggio immerso nel verde una madre racconta al suo bambino, per farlo addormentare, la sua storia preferita: la leggenda di Hanuman. Il piccolo rimane più che sveglio, sovraeccitato, ascoltando le gesta dello scimmiotto che volle avvicinarsi a un frutto di mango sull’albero più alto della foresta, finendo per mangiare infine il sole, diventando invincibile ma scatenando l’ira degli dei.

Siamo ancora in India, alcuni anni dopo, nei bassifondi della grande megalopoli di Yatana, al “Tiger’s Temple”, dove si tengono combattimenti clandestini senza regole tra guerrieri mascherati, tra fango, sangue e stranieri che scommettono pesante.  Contro l’uomo serpente si scontra quel bambino che una volta amava la storia di Hanuman, che ora diventato adulto, nascosto dietro a una maschera e pieno di muscoli, si fa chiamare Monkey Man. Si scontra e perde sempre, per agevolare le scommesse più ghiotte e “concordate” del padrone di casa, maneggione e grande anfitrione Tiger (Sharlto Copley), ma tra una nuova cicatrice e l’altra pensa a ben altro. 

Progetta un grande piano per lasciare i bassifondi, salire in cima alla grande città e alla catena alimentare, alla corte di Queenie (Ashwini Kalsekar), nel suo “Kings”, un castello/albergo/Night Club da cui, tra prostitute, gioco d’azzardo e droga, governa i traffici loschi di tutto il paese. 

Nella stanza più in alto dell’edificio, come sul ramo più alto della foresta, Monkey Man raggiungerà il suo “mango”, il suo “premio”, la sua grande “vendetta”. 

Forse scatenerà anche l’ira degli dei.

Forse diventata l’eroe che il suo paese sta cercando dopo essere caduto nella corruzione e dissolutezza morale, a causa del capo della polizia Rana (Sikander Kher) e del finto guru spiritual/televisivo Baba Shakti (Makarand Deshpande). Ma la salita, a suon di pugni e pistole, sarà lunga e difficile. Comporterà nocche rotte, cadute vertiginose e una dolorosa “rinascita” per il nostro eroe. 

Serviranno la guida spirituale e marziale del saggio Alpha (Vipin Sharma), che eleveranno Monkey Man alle tecniche e onore dei guerrieri Veda. Servirà soprattutto una pace interiore che guidi l’uomo fino a non renderlo più cieco a causa della vendetta. 


È decisamente un periodo florido “per le scimmie”, tra i trasformers scimmie dell’ultimo film Hasbro al nuovo Kong e Godzilla al cinema per Warner, passando per l’imminente Regno del pianeta delle scimmie di 20th Century Fox. 

È un periodo interessante anche per gli uomini-animale, tra la dolce e combattiva mutaforma di Dungeons&Dragons,” l’airone umano de Il ragazzo e l’airone di Miyazaki  e il sorprendente Dog Man di Luc Besson.

Dav Patel, l’attore di The Milionaire, Humandroid, Marigold Hotel e Lion, scrive e costruisce personalmente, fin dal 2018, questa pellicola per il suo debutto da regista. La produzione è dal già leggendario Jordan Peele e nella sceneggiatura Patel si fa accompagnare anche da un “esperto di epica”, come quel John Collee di Master & Commander

Le coreografie di lotta sono  sotto la direzione di un veterano come Brahim Chab, con in curriculum le acrobazie in motion capture per i videogame della serie Assassins Creed e molti action movie con protagonisti Jean Claude Van Damme, Scott Adkins e addirittura sua maestà Jackie Chan. 

Lo stunt Double di Patel per le scene più complesse è poi Wut Kulawat (stunt di Tyler Rake) e come coordinatore degli stunt c’è un’altra leggenda, Udeh Nans, che ha lavorato a quei capolavori senza tempo di The Raid e The Raid 2 di Gareth Evans.

Il direttore della notturna e psichedelica fotografia è Sharone Meir e viene dritto dal recente Silent Night, dove la sua fotografia, già notturna/industriale/psichedelica, era una delle cose più riuscite dell’ultimo film di John Woo. Le musiche, un felice mix di tamburi tribali e techno-trance che ricorda il sound design dell’anime Akira, di Otomo, sono di Jed Kurzel (Assassin’s Creed). 


Monkey Man è un film semplice ma anche simbolico, quasi un cine-fumetto sui Veda. 

La storia dello scimmiotto che vuole raggiungere il mango, che simboleggia il sole e si trova nel punto più alto della foresta, scatenando l’ira degli dei e trasformandolo in eroe tragico, è un topos felicemente trans-culturale. Un po’ Icaro e un po’ Prometeo, un po’ il Goku di “viaggio in Occidente” (la stessa fonte di Dragon Ball, un romanzo cinese del XVI secolo). 

Il bambino diventa grande diventando lui stesso lo “scimmiotto”, sui ring colorati di un wrestling clandestino onorevole ma dimesso, che richiama colori e urla di pellicole come Lionheart quanto Danny the Dog (un altro uomo-animale). 

Il Monkey Man diventa “grande per vendetta” e sfida i “nuovi dei”, inaccessibile quanto crudeli come da tradizione, che hanno residenza ai “piani alti del mondo” della nuova India cosmopolita, tra grattacieli sgargianti costruiti ai margini delle baraccopoli. Luoghi che hanno il sapore e colori accesi della Neo Tokyo di Akira, così come la sopra menzionata colonna sonora, carica di sonorità house/trance e tamburi, idealmente in bilico tra passato e presente, tra spiritualità e consumismo, in grado di  trascinarci in atmosfere new age vibranti, dove grazie anche ai canti tribali e a effetti speciali “trascendenti” (interessanti e particolari gli effetti visivi) sembra possano prendere forma i leggendari “Veda”. 

Dopo un incipit quasi super-eroistico e una descrizione del sottobosco del mondo criminale indiano veloce, sarcastica e concitata come in un film di Guy Ritchie (vedi la sequenza del “furto collettivo” del portafoglio), quella a cui assistiamo è in sostanza una trama simile a una “Anabasi in verticale”. 

Sul piano visivo abbiamo un viaggio dai bassifondi verdeggianti, rugginosi e poveri, ma pieni di spiritualità, agli attici luminosi e metallici del “nuovo potere”, dove domina solo il denaro, in un continuo percorso a ostacoli e scontri fisici “duri” che ricorda il The Raid di Gareth Evans, con uno stile che passo dopo passo si fa sempre più psichedelico, sporco e concitato. Ogni pugno fa male e lascia cicatrici su corpi in costante dissoluzione fisica quando morale, che si possono riconoscere e identificano prima di tutto per le cicatrici di una lotta (come nel caso del capo della polizia), prima ancora che per una narrazione esplicita, che spesso è “posticipata al visivo” in un modo narrativamente interessante. A contrapporsi a gangster in doppio petto e poliziotti corrotti arrivano poi, tra sogni e realtà, guerrieri armati di lance e spade vestiti in abiti tradizionali indiani, che citano per il trucco pure Shiva, in un meltin pop marziale ancora sospeso tra passato e presente, che ricorda l’incipit del terzo John Wick. 


Sul lato emotivo, Patel sceglie di interpretare una specie di eroe metafisico, un “deadman immortale” guidato dalla vendetta, per molti versi non distante dal Corvo di Proyas. È un uomo cupo, affranto e quasi silenzioso, che si carica mano a mano nel viaggio anche di valori morali positivi, procedendo verso una spiritualità più completa. Molti personaggi come Alpha e Queenie sono davvero riusciti e tragici, alcuni comprimari riescono invece a sviluppare anche una sottile linea comica. Il tono generale è quindi tragico, ricercatamente “teatrale”, ma non mancano momenti surreali quanto divertenti come la corsa coi i tuk tuk truccati. 

Patel dimostra di avere le idee molto chiare nella gestione della pellicola e la visione trascorre senza intoppi o cali di ritmo, in uno scenario che dal naturalistico al decadente/industriale si fa sempre più stretto, contratto e claustrofobico, a tinte rosso sangue come in The Raid. Un sangue che “fa pendant” con le luci da Night Club rosso lussuria delle vip room più esclusive del “Kings”, seguendo idealmente l’armocromia di un'unica arteria marcia della modernità orientale, oggi per i ricchi occidentali più paradiso del business, del piacere e dissolutezza, piuttosto che il massimo luogo di meditazione che rappresentava in passato. 

Si sente quasi la malinconia e il marciume di corpi in vendita e mazzette che passano sotto mano all’ombra dei palazzoni, mentre il “ritorno al primitivo”, il gioco della lotta tra maschere animali, come la fuga verso le foreste che avviene a metà pellicola, sembrano qualcosa di più salvifico che regressivo. 

Patel sembra didatticamente e titanicamente ricercare nuove basi/radici, simboli/spiriti, per la “ricostruzione” di questo piccolo microcosmo che “sente suo”, anche al di là di una poetica action fieramente da b-movie (che a tratti fa anche tanto “Uomo Tigre”, per i fan dei cartoni animati “vintage”), estrema e quasi griffata, cool e glam come in John Wick. Ma oltre ai capi firmati e alle musiche disco il regista riesce a farsi coerente e originale proprio nella rappresentazione dell'iconografia cinematografica del mito: seguendo le orme di una “tradizione orientale” che abbraccia anche i cinesi Wuxia. Gli dei e gli eroi del resto nel cinema wuxia debellano interi eserciti a mani nude, tra balletti di calci e pugni, proprio come gli artisti marziali anni '80 come Van Damme faranno in seguito nel genere action e nel 2000 faranno i “nuovi dei”: i supereroi Marvel. C’è una sottile ciclicità in questo percorso ed è in questo senso stimolante il momento in cui Alpha insegna le millenarie tecniche Veda a Monkey per debellare un guru 2.0 del nuovo millennio.

Dav Patel sa confezionare un “action spirituale” dinamico, esteticamente ricco tanto visivamente che sul piano sonoro, divertente e movimentato nelle coreografie di combattimento e con un animo tragico/epico profondo. Anche se qui i personaggi per lo più non parlano molto e le mazzate stanno al primo posto, la storia funziona e lo spettacolo è garantito da un'idea di cinema movimentato, “ginnico” quanto intrigante. 

Un film da gustarsi in sala, con gli amici e con i pop corn di ordinanza, che i fan degli action non dovrebbero farsi scappare. 

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lunedì 15 aprile 2024

Ennio Doris - C’è anche domani: la nostra recensione del film di Giacomo Campiotti con Massimo Ghini e Lucrezia Lante della Rovere, tratto dalla autobiografia del celebre banchiere

 


Siamo nel 2008, il 10 settembre. 

È una sera che sembra come le altre, ma si trova a poche ore dall’inizio “televisivo” di una delle più grandi crisi finanziare della Storia recente. 

Le “Suprime”, le obbligazioni immobiliari americane da sempre ritenute i titoli più sicuri di investimento, presenti in quasi ogni pacchetto azionario, si sono rivelate infine dei titoli tossici e la loro “bolla economica” è esplosa (lo racconta bene il film La grande scommessa, di Adam McKay). Cade il gigante Lehman Brothers e si porta dietro tutte le banche e tutte le borse del pianeta, le imprese come i piccoli risparmiatori, le società di investimento: tutto. 

Tutti sono nel panico o lo saranno presto, quando inizieranno i licenziamenti, la vita inizierà a sembrare troppo cara e i pochi risparmi risulteranno in parte “volatilizzati”. Sembra l’apocalisse, si aprono le “Red room” in ogni società e gruppi di investimento, in piena notte.

Ennio Doris (Ghini), il fondatore di Mediolanum, dopo aver finito a telefono spento la consueta partita a carte con gli amici di sempre, sul tavolo davanti alla solita trattoria veneta, deve rispondere alla crisi. Viene chiamato a prendere un volo immediato con l’elicottero, destinazione Milano. Massima urgenza, massima segretezza per non alimentare il panico. Tanti pensieri per la testa. 

Doris è in volo verso il figlio Massimo e i vertici della sua banca, pronto a soccorrerli e calmarli come farebbe un supereroe, ma la mente lo riporta ai giorni in cui era bambino, nella provincia, in quel di Tombolo. Biondissimo, mingherlino ma sveglio. 

La sua era una famiglia non troppo agiata, ma felice di vivere in onestà con quanto prodotto dall’orto, piccoli scambi siglati con una stretta di mano al mercato e fiducia nel futuro. Suo padre tutto il giorno con umiltà, ottimismo e orgoglio, curava i loro campi e le loro bestie, con il piccolo Ennio che sognava già di lavorare al suo fianco e ci sapeva fare nell’arte di riportarle dentro il recinto, al sicuro. 

Mamma e sorella lo riempivano di coccole e l’amico  di sempre, Aldo, scontroso ma irrinunciabile, figlio di un commerciante locale poco simpatico, leggeva con Ennio i fumetti di Tex Willer, immaginando insieme a lui di gestire, da adulti, una grande mandria.

La più grande crisi che il piccolo Ennio aveva visto con i suoi occhi riguardava un camion carburante incastrato sotto un ponte, per via del terreno fangoso che era diventato troppo gonfio dopo la pioggia. I vigili del fuoco cercavano di tirarlo fuori con le funi, senza riuscirci, mentre Ennio, che a scuola era già bravino con i numeri, calcolava che sgonfiando le gomme del mezzo c’erano i centimetri giusti per liberarlo. 

Certo era troppo piccolo all’epoca per prendersi il merito di quella scoperta al posto di un adulto: i “boccia” non li ascoltava nessuno e la “scoperta” la vendette ai vigili il padre dell’Aldo. Ma al papà di Ennio questa intraprendenza risolutiva e logica piacevano, al punto da voler instradare il figlio verso la scuola di ragioneria più ai campi da arare. 

Ennio cresceva insieme alla sua fame di numeri e grafici, che vedeva a volte balenare pure in cielo o staccarsi dai fogli per danzare nell’aria. Ma rimaneva sempre legato con gioia a quel mondo contadino fatto di strette di mano callose, segno di fatica, impegno e sudore, nel quale era nato. 

Così, quando arrivò il momento di trovarsi un posto in banca come da desiderio della sua insegnante di matematica, Ennio decise che non sarebbe rimasto allo sportello: chiese al direttore la possibilità di andare a trovare i clienti che lavoravano la terra direttamene a casa loro, senza che perdessero una giornata di lavoro per venire in filiale a fare la fila. Ci andava in bici, con i contratti nel cestino, e presto sarebbe andato direttamente anche dai piccoli imprenditori, fino a fare negli anni del contatto diretto, il “family banking” la sua filosofia di lavoro. 

L’anziano Doris torna al presente, atterra con l’elicottero a Milano, rasserena i soci che una soluzione si troverà, anche a costo di ripartire da zero e dai campi, ricominciare tutto da capo insieme. A fine riunione parte in auto con il figlio e lungo la strada, profeticamente, una mucca blocca il percorso. Doris scende dalla berlina per riportarla oltre il recinto, al sicuro insieme alla mandria: una delle cose che amava fare fin da bambino, a cui aveva appena pensato, si è materializzata davanti ai suoi occhi. 

La crisi si espande e arriva alla politica, ma Ennio non può rinunciare a continuare il suo “road tour” per l’Europa, per promuovere la sua banca e il lavoro dei suoi dipendenti, che sono con lui alcuni già da più generazioni. 

Sull’aereo privato lo accompagna nel viaggio la moglie Lina (Lucrezia Lante della Rovere), che di notte gli ha preparato i gnocchi di patate che gli piacciono tanto e gli è vicina da sempre, specie in questi momenti tormentati dove lui pensa a tutti meno che alla sua salute. L’aveva conosciuta quando ancora andava a trovare fattoria per fattoria i contadini. Lina aveva solo 15 anni, anche se li mascherava bene. L’aveva sposata quattro anni dopo in accordo con il padre, quando lei aveva finito la scuola e dopo che lui gli aveva dimostrato di essere una persona per bene. Lina era con Ennio quando divenne capo filale, quando poté permettersi la prima auto sportiva e quando decise, insieme a Silvio Berlusconi (Alessandro Bertolucci), di creare una banca con a cuore la salute degli investitoti più piccoli, inserendo nei pacchetti titoli delle polizze per maggior tutela del loro futuro. 

Lina sorride oggi come allora e sostiene Ennio anche quando è sicuro che 100.000.000 di euro gravano sui loro investitori, proprio in virtù di una fideiussione legata a quelle polizze. La scelta di tutte le banche per “arginare la crisi” è quella di limitare i danni e non fare quasi nulla per i piccoli, ma Ennio e il suo socio sono pronti a una prospettiva diversa, per loro decisamente poco conveniente ma che rimette al centro, ancora una volta, i clienti della banca prima di tutto. 


Giacomo Campiotti riprende e rielabora l’autobiografia di Ennio Doris, scegliendo un linguaggio classico e preciso, che si colloca nel solco dello sceneggiato televisivo biografico, usato per le storie di papi e uomini legati alla Storia d’Italia. 

Come da “modello”, che peraltro viene ripreso da Mann anche per il recente film su Ferrari, si racconta la vita di un uomo che “si fa eroe etico”, in un momento particolarmente importante della sua esistenza, caratterizzato da bilanci interiori quanto da soluzioni difficili da prendere in breve tempo. Una “messa alla prova del carattere”, nella quale il protagonista ripercorre idealmente le tappe più importanti della sua vita, alla ricerca di quelle costanti che hanno caratterizzato e formato nel tempo il suo pensiero. Lo conosciamo bambino, biondissimo e fragile, interpretato da un attore che ricorda il Mattia di Pierro in Io non ho paura.  Lo ritroviamo giovane adulto aitante, innamorato perso della vita e dell’amore: dall’aria perennemente sognante, così sognante che ci ricorda il Daniele Rutelli di Giacomo Rosselli, dei Ragazzi della terza C. Lo vediamo anziano e saggio, paterno, nel corpo ricurvo e lo sguardo malinconico di un Massimo Ghini mai così accartocciato e anziano. I “tre Doris” collaborano “fantasmaticamente” tra loro nella soluzione della grande crisi, aiutati simbolicamente dai loro affetti, amici e “contendenti” di ogni diverso periodo storico. 

C’è l’amichetto/rivale con cui giocare a Tex Willer e Kit Carson, litigare e poi ritrovarsi da adulti (interpretato dal bravo Pierobon), simili ma distanti come “Il bandito e il campione” di De Gregori. C’è il banchiere-capo “spregiudicato e per ricchi” e il banchiere-capo “stanziale ma immobile” tra cui il protagonista dovrà scegliere un proprio indirizzo di vita, trovando una strada propria. C’è un padre immenso e generoso da cui imparare il senso del mondo a partire dalla terra e le cose semplici. C’è Lina (una accogliente e generosa Lucrezia Lante della Rovere) e i figli, i colleghi (anche in momenti dal sapore aziendale buffo-fantozziano) e amici più stretti: il cuore e il futuro da costruire insieme come una grande famiglia unita e allargata, che idealmente lui vorrebbe estendersi pure verso i correntisti della banca. 

Come in A Beautiful Mind di Howard, ogni tanto il banchiere Doris legge simboli e numeri nel mondo che lo circonda: grafici che si disegnano tra le stelle del cielo notturno, numeri che danzano, oggetti dalle cui forme emergono piramidi (amava la Torre Eiffel) o il “cerchio/uroboro”. Un cerchio che richiama il più famoso spot tv di Doris: il cerchio che con un bastone lui stesso (come Amadori e Rana “metteva la sua faccia” negli spot) disegnava su un confine immaginario, nello spot di Mediolanum, la banca “costruita intorno a te”. Un “gesto antico” che qui nel film viene attribuito al padre.

La trama si srotola semplice e ordinata come da sceneggiato televisivo, raccontando la vita contadina quanto il glamour dell’alta finanza, le partite a scopa al bar e poi i viaggi in elicottero, il privato e il pubblico, tutto sottolineato da celebri canzoni di musica leggera italiana come Non ho l’età della Cinquetti e Uomini Soli dei Pooh. 

Ogni tanto la narrazione si fa più simbolica e arrivano momenti quasi estatici/mistici, come l’incontro di Doris con Berlusconi a Portofino. Doris e Berlusconi parlano tra loro una lingua diversa e unica, “programmatica”, quasi costruita da addetti stampa o mistici bizantini, parola per parola.  La loro è una comunicazione sempre rapida e dinamica, quanto anche umanamente complessa: una comunicazione tra idee più che tra persone, straniante. 

Il quadro generale, sulla base anche della visione della pellicola da parte della famiglia e degli impiegati che la hanno potuta vedere in anteprima, sembra rispecchiare con garbo la figura del banchiere veneto. Un uomo “complesso ma semplice” quanto vicino ai problemi dei suoi correntisti, al punto da realizzare nel 2008 un atto di generosità e coraggio di portata enorme, e di cui ancora si parla poco e che forse questa pellicola contribuirà a far conoscere al grande pubblico. 

Ennio Doris  - C’è anche domani è uno “sceneggiato televisivo moderno”, rispettoso della formula e del suo pubblico di riferimento, ben recitato e con una forte componente emozionale, in grado di raccontare con garbo una storia umana ricca, tra il passato e presente del nostro Paese. 

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lunedì 1 aprile 2024

Un mondo a parte: la nostra recensione della nuova commedia di Riccardo Milani con Antonio Albanese e Virginia Raffaele

Un paesino di montagna di 200 anime scarse, in capo al mondo e circondato da boschi, branchi di cervi e di lupi, neve e gelo. Poco meno di 150 chilometri da Roma, ma siamo letteralmente in “un mondo a parte”, nel cuore del parco nazionale d’Abruzzo. 

Questa è la nuova meta per il maestro elementare Michele (Antonio Albanese), che dopo 40 anni di esperienza viene trasferito, “in sostituzione temporanea” dalla capitale, tra il ghiaccio, la neve e la tormenta eterna che perseguita la cittadina di Rupe (paese immaginario, di fatto “ispirato e ambientato” a Ope, con scorci di Pescasseroli). Lo reclama la scuola gestita dalla vicepreside Agnese (Virginia Raffaele), l’istituto “pluriclasse unica”, 7-10 anni, Cesidio Gentile, detto “Jurico”, poeta pastore. 

Pochi bambini ma vitali per tutto il borgo: perché quando da quelle parti una scuola chiude è tutto un paese a scomparire, con tutti che vanno via. “La montagna lo fa”, questo effetto. 

La notte fa freddo e i lupi ululano, anche se tutti rassicurano Michele che in genere non aggrediscono. In genere. Ruspe e spazzaneve sono sempre all’opera fin dalle 6 del mattino, ma se fiocca all’infinito e il cellulare non prende è un problema, e l'eroica vicepreside, pur di tenere la scuola aperta, è disposta a usare la sua auto per raccattare lungo la strada gli altri insegnanti la cui vettura è rimasta sepolta da una slavina. 

Le persone che si incontrano per strada a Rupe in genere hanno poche parole per via del freddo e il massimo di comunicazione è “Oh?”. Un “Oh?” che suona come un affettuoso “Eh, come va?!”, ma può suonare anche per un impropero, con la giusta intonazione, perché non si ha la forza di dire o pensare ad altro mentre si arranca in questo piccolo mondo artico e freddissimo. 

Come se non bastassero i vestiti super pesanti da indossare, le scarpinate quotidiane per raggiungere l’istituto e tutta la complicata fase di ambientamento cui è sottoposto il nuovo professore, in cui è particolarmente vitale scoprire come si usa la caldaia, pare che ci siano problemi più grossi. Se non si trovano quattro ragazzini per formare la classe per giugno, è da poco stato messo pure nero sul bianco che l’istituto rischia la chiusura. 

Lo vuole il preside, perché vuole costruire un centro commerciale sulle rovine di Rupe, e ha già le firme per i lavori. 

Servono soluzioni positive, anche perché i bambini dello Jurico, poeta pastore, sono incredibili, gentili e geniali, lavoratori e poeti. Sono pure i soli bambini in Italia a sapere la storia dettagliata della vita del poeta che dà il nome alla loro scuola ed è una cattiveria portare via loro la casa e il futuro su quelle montagne.

Anche se l’unico lì per lì a essere entusiasta di quei luoghi sperduti, a parte i bambini, sembra solo il nuovo prof.: che predica la “restanza” al posto della fuga verso la città. 

Tutto il resto del borgo si è ormai arreso alla “estinzione”, a parte la vicepreside, un bidello e un ragazzo che ostinatamente ha deciso di rimanere lì a coltivare i campi, ultimo tra gli ultimi nella zona. Forse il professore ragiona solo da “turista”: stanco del traffico cittadino e felice della nuova realtà giusto per i primi mesi, dopo di che si romperà pure lui le scatole per il gelo perenne. Ma l’ottimismo, come sempre, può essere contagioso.

E il fascino che irradia dall’ottimismo del prof può far breccia anche sulla disillusa, ma non per questo arrendevole, vicepreside. Al punto da aiutarla a “restaurare” la sua vita oltre che la sua casa. 

Trovare quattro bambini per continuare a tenere viva Rupe è però possibile, insieme. Si può chiedere di avere allo Jurico i figli dei lavoratori africani non distanti dalla zona, promettendo alle famiglie alloggio e Netflix “per sempre” a spese del comune. C’è poi la guerra in Ucraina e molti bambini necessitano di una scuola che possa accoglierli: con il sociale che si sta muovendo in zona Pescasseroli e l’albergo locale che può accogliere i genitori durante la bassa stagione, Rupe può aiutare sicuramente qualcuno di loro. Certo siamo sempre fuori dal mondo, ma qui si può anche trovare un modo di vivere, magari anche meglio, in un “mondo nuovo e diverso”. 


Riccardo Milani torna al cinema dopo il documentario Io, noi, Gaber e l’ottimo Grazie Ragazzi, film sulle carceri dove era sempre protagonista Antonio Albanese, in un ruolo da “insegnante” che gli sta sempre meglio,  pellicola dopo pellicola. 

In Un mondo a parte prosegue per il regista romano anche la collaborazione con lo sceneggiatore Michele Astori, per una storia “civica” sull’insegnamento e la conseguente disillusione, che in qualche modo ci rimanda al primissimo lungometraggio di Milani, Auguri Professore, del 1997. 

Un mondo a parte è però una storia più positiva, quasi solare. 

Solari sono i volti dei piccoli interpreti e degli abitanti di “Rupe”, tutti attori non professionisti, presi la maggior parte a Pescasseroli e dalla zona tra i locali: piccoli studenti come vigili del fuoco, postini e artigiani. La loro recitazione è spontanea quando divertita, il lavoro generale ricorda, per freschezza e spirito, la felice esperienza di Paolo Villaggio con i bambini della provincia di Napoli, per Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller. 


Sono solari anche Albanese e la Raffaele, molto carini anche come coppia inedita, che si trovano perfettamente a loro agio in personaggi che suonano “autentici”, protagonisti di un storia di “piccoli eroi civici” che si ispira in larga parte a situazioni reali, srotolandosi con semplicità, in modo quasi invisibile, tra gli scorci più belli del parco nazionale d’Abruzzo, città semi deserte e città abbandonate. Non c’è quasi nulla di patinato, ci arrivano scorci di una realtà spesso ruvida e irrisolta: ma per questo, quello a cui assistiamo ha anche un profumo più autentico.  

Spesso bastano solo i volti di queste persone prese dalla strada a raccontare, con ironica ma anche dura e realistica consapevolezza, la quotidianità e precarietà cui vanno incontro molti paesi di montagna della nostra penisola. Paesi dimenticati “per necessità o profitto”, che lottano per continuare ad esistere tenacemente quanto eroicamente. Persone che smettono di credere nel futuro perché ancorate a uno stato delle cose che appare ineluttabile e già precostituito dall’alto, ma che sono pronte a cambiare idea quando un nuovo nato arriva al mondo.

Milani con garbo, anche grazie ad Albanese e alla Raffaele, riesce a dare voce a queste realtà, mandandoci in sala a guardare una cartolina bellissima di luoghi che non vorremmo venissero mai dimenticati. 

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venerdì 29 marzo 2024

Kung fu panda 4: la nostra recensione del film sulle nuove avventure del eroico e pasticcione panda di Dreamworks, diretto da Mike Mitchell e Stephanie Ma Stin

C’era una volta il panda Po (in originale con la voce di Jack Black e in italiano con quella di Fabio Volo), un ragazzotto un po’ nerd e pasticcione che serviva ravioli al vapore nella locanda del padre papero, mr. Ping (James Hong), sognando “senza particolare sforzo” di diventare il più straordinario maestro di Kung Fu di sempre. 

Un panda per natura cicciotto, senza zanne o artigli o agilità di alcun tipo, non era mai diventato nella storia un maestro di arti marziali, ma come amava dire (più o meno) il saggio Oogway “quello che può accadere oggi, rispetto che in passato, è sempre un regalo, una sorpresa: per questo lo chiamiamo “presente”. 

Cosi un giorno, del tutto inaspettatamente, Po divenne un grande eroe. Ci vollero molti allenamenti con i mitici super guerrieri conosciuti come “i Cinque Cicloni”. 

Furono necessari duelli incredibili contro avversari temibili come la tigre Tai Lung (Ian McShare), il pavone Lord Shen (Gary Oldman) e il toro generale Kai (J.K.Simmons). Po dovette scoprire il suo “potere interiore” grazie a maestri saggi come il piccolo panda rosso Shifu (voce Dustin Hoffman) e la tartaruga di mare Oogway (in originale Randall Duk Kim). 

Ma piano piano, tra un inciampo e una sconfitta bruciante, la mente di Po, al pari del suo corpo rotondetto, si plasmarono benissimo con la disciplina e la filosofia orientale. Riuscì a diventare il leggendario guerriero dragone, imparò ad accettare i suoi difetti insieme ai suoi pregi, intraprese un viaggio per trovare la sua “origine” (perché i panda non discendono dalle papere, seppur amorevoli) e il proprio posto nel mondo. Le sue gesta eroiche iniziarono a girare per tutto il regno, diventando canzoni e leggende. 

Per Po, che prima del suo “viaggio dell’eroe” riteneva che la cosa più faticosa al mondo fosse “salire le scale”, era diventata routine affrontare a pugni, per ore, eserciti di coccodrilli o mantidi volanti. Pirati pellicani come cinghiali tagliagole provenienti delle più infide bische di periferia. 

Volando con il suo mantello dorato e colpendo con la sua super forza. Trovando sempre il tempo di presenziare all’apertura di centri commerciali e soprattutto ristoranti in franchise. 

Fama, gola  e gloria. 

Solo che tutto passa e in un attimo è giunto anche per Po il tempo di compiere la tappa successiva del suo viaggio “spirituale”. Non più essere guerriero dragone per sempre, deve dedicarsi anche lui all’insegnamento (cosa per altro già rimandata) e soprattutto è arrivato il momento di diventare il successore di Maestro Oogwai: la nuova guida spirituale della valle della pace. In fondo è per questo che ha ora un bastone magico in pugno. 

Il primo atto di questa “nuova vita” sarà scegliere il suo successore, ma non è certo un momento facile per Po. 


Vorrebbe non appendere il mantello dorato al chiodo proprio ora che è all’apice. Preferirebbe svolazzare come un supereroe piuttosto che dedicarsi alla meditazione. E chi inaugurerà ora i ristoranti?

Come il testo della canzone portante del film ci suggerisce, una cover di un celeberrimo brano di Britney Spears interpretata da Jack Black (la voce di Po) con il suo gruppo dei Tenacious D (interpretandolo in versione adatta a un pubblico più piccolo), Po ci supplica: “Hit me baby, One more time!!!”. Ossia: “Fatemi combattere/colpire ancora una volta!!”.

Anche se il maestro Shifu conta moltissimo su un'evoluzione spirituale di Po, rapida quanto indolore, il panda sente di essere nel marasma più totale. 

Il nome del successore non riesce proprio a farlo, nonostante al tempio si siano già presentati dei candidati pazzeschi in grado di evoluzioni marziali fighissime. Temporeggia, fino a che il destino non fa incrociare Po con una volpina scaltra e agilissima di nome Zhen (in originale doppiata da Awkwafina). Una volpina che è stata inviata da un paese lontano per sottrarre notte tempo al tempio delle armi leggendarie, per conto della terribile e misteriosa super boss del crimine conosciuta come  “la Camaleonte” (Viola Davis). 

La Camaleonte sembra all’apparenza piccola e dimessa, quasi una mezza tacca, rispetto ai gorilloni e cinghiali pompati che comandano uno crimine in genere. M è potente e ambiziosa, nonché in grado di trasformarsi, sotto certe condizioni, in chiunque lei voglia, possenti draghi compresi. Sta ultimando i preparativi per un rito magico che le permetterebbe di evocare dall’aldilà, in una notte di luna rossa, i guerrieri più forti del passato. Vuole potersi impadronire del loro Kung fu “rubandolo”, assorbendolo con i suoi poteri camaleontici.  

Zhan, che è conterranea della Camaleonte e può portare Po al suo covo, viene da un mondo difficile, dove anche i coniglietti più tenerelli sono assetati di sangue. Ha imparato a vivere ai margini della strada, tra bar malfamati, truffatori e bische clandestine, senza poter mai contare sull’aiuto di nessuno e affidandosi solo sul suo istinto di sopravvivenza, “rubando quello che poteva”, come la camaleonte. 

Zhan ha un caratteraccio ma ha il “potenziale”, potrebbe essere lei il nuovo guerriero dragone se riuscirà a “imparare a esserlo”,  seguita da un maestro degno di questo ruolo. 

Come un seme di pesco non è in grado di vedere il suo “potenziale”, ossia l’albero che diventerà da adulto, Zhen per Po può essere guidata. E Po, riuscendo a elaborare da solo questo concetto (che è in fondo una parafrasi della teoria della “ghianda” dello psicologo James Hillman, padre della psicologa della corrente “archetipica”)  stava iniziando a esprimersi per metafore profonde come Oogway!!! 

Forse anche il cammino spirituale di Po, insieme all’addestramento di Zhan, poteva iniziare. 

Certo il buffo Panda che, inaspettatamente, inizia così a comportarsi con lei anche come un maestro è un'ulteriore novità, che andrà gestita di volta in volta, nei modi più buffi e assurdi possibili. Specie quando dovrà insieme a lei confrontarsi con un mondo più complicato e “cattivo” di quello che conosce. 

Riusciranno Po e Zhan, dopo un nuovo viaggio dell’eroe rocambolesco, a salvare il mondo e i segreti del Kung Fu dalla ambizione della Camaleonte? Chi sarà il guerriero dragone che inaugurerà i futuri ristoranti in franchise?

Quarto appuntamento cinematografico con il celebre e amatissimo Kung Fu Panda di Dreamworks Animation, insieme a Shrek uno dei personaggi più amati della casa fondata da Spielberg. 

La saga cinematografia in computer grafica, alla quale si sono aggiunte con il tempo serie televisive e film in animazione tradizionale, è iniziata nell’ormai lontano 2008 con la pellicola diretta dai registi Mark Osborne (regista di Spongebob il film, nel 2004, poi de Il piccolo principe nel 2015) e John Stevenson (animatore di lungo corso del Muppets Show, esordio alla regia con Kung Fu Panda e regista nel 2018 di Sherlock Gnomes). 

L’impegno dichiarato, sulle note della storica Kung Fu Fighting cantata da Carl Douglas, era quello di divertire e insieme far conoscere al grande pubblico internazionale il cinema action come la cultura orientale, la filosofia come le arti marziali. 

Assieme a un cast vocale pieno di attori Hollywoodiani come Jack Black, Angelina Jolie, Hoffman e Seth Rogen, avevamo quindi la presenza di storici attori di origini asiatiche come Lucy Liu, Jackie Chan, James Hong, Randall Duk Kim. Un team di esperti marziali tra cui Jackie Chan stesso aveva contributo, con la motion capture, a conferire il corretto stile Kung fu a ogni personaggio e gran parte del cast tecnico impiegato nella creazione di scenografie e personaggio era asiatico al 100%, per offrire una visione meno stereotipata e più rispettosa possibile. 

Possiamo dire che è anche merito del buffo Kung Fu Panda, se molti bambini si sono avvicinate oggi alle arti marziali, ed è un risultato davvero meraviglioso. 

Con il tempo e il successo si è andata a formare produttivamente, proprio grazie a Kung Fu Panda, una “sezione orientale” di Dreamworks, con il secondo e terzo capitolo della serie affidati anche alla regia della prima donna asiatica in campo animato, la bravissima Jennifer Yuh Nelson, nel 2011 e poi nel 2016, avvicinando ancora di più a livello creativo Oriente e Occidente, anche per temi e sviluppo dei personaggi. Nello specifico il secondo capitolo, tra tutti quello più “crudo”, con un villain la cui voce veniva offerta da Gary Oldman, possedeva anche la “struttura drammatica” imponente, da film epico/wuxia “autentico” come quelli degli Shaw Brothers, dimostrandosi ancora oggi un’opera particolarmente adulta e sfaccettata tanto sul piano visivo che tragico. Grande successo di critica e amore soprattutto da parte di una platea “più grandicella”. 

Il terzo capitolo, co-diretto dall’italiano Carloni e con il maestro Crock doppiato dal mitico artista marziale Jean Claude Van Damme, vedeva la saga tornare su binari più “mainstream”, in una prospettiva narrativa più “positiva”, più “giocosa e gioiosa”, pur riuscendo ancora ad affascinare il pubblico. Veniva acquisita un'estetica più patinata e conferire alle scene action un approccio più “leggero”, quasi da videogame. Dopo il viaggio dell’eroe e la grande “battaglia” con uno dei nemici più crudeli di sempre, Kung Fu Panda 3 arrivava a parlare di temi come la paternità e l’inclusione, onore e rispetto per le minoranze, disegnando un cattivo più sfortunato che crudele, a cui dava voce il bravo J.K.Simmons.

Fu ancora successo e questo nuovo approccio viene in parte sposato anche per questo quarto capitolo, che però torna in alcuni toni, di nuovo, ad avere un gusto narrativo quasi crepuscolare, vicino al tragico. 

Come ulteriore cambio di rotta, alla regia arriva il regista di Shrek 2 e Mostri contro Alieni Mike Mitchell, affiancato dalla brava Jennifer Ma Stine, che esordisce qui alla regia cinematografica (già regista della serie televisiva di She-ra), dopo essersi fatta le ossa come addetta alle scenografie in Raya, Dragon Trainer e opere tv legate a Big Hero 6 e Il gatto con gli stivali. Mattatrice indiscussa dell’opera, a fianco dei sempre bravissimi Hoffman e Jack Black, è la rapper di origini cino-coreane Awkwafina, che riesce a rubare la scena anche alla “cattiva”, interpretata della pur straordinaria e sempre luciferina, Viola Davis.


Kung Fu Panda 4 tra tantissimi inseguimenti, gag e arti marziali ci parla di “passare il testimone”, fare largo alle nuove generazioni, supportarle e sorvegliarle da vicino, per aiutarle a crescere al meglio. Potremmo intenderlo come il perfetto “film da vedere con il papà”, specie per i bambini più piccoli. Il perfetto film per chi vuole intraprendere la professione di insegnante. 

Narrativamente Po è quasi costretto a “diventare adulto”, di colpo e senza possibilità di tornare indietro. Un'evoluzione repentina che ci ricorda molto anche quanto avviene nel bellissimo Il gatto con gli stivali 2, dove lo spadaccino interpretato da Banderas viene posto di colpo davanti alla sua “età adulta”, quasi ad affrontare la morte stessa nella scelta di dare o meno un senso alla sua esistenza. Crepuscolare, come crepuscolare era anche Toy Story 4 se vogliamo: forse intrinsecamente per la natura stessa di queste pellicole, per il fatto di richiedere ai loro autori spesso degli anni, per la loro realizzazione. 

Po il Panda invecchia e forse in futuro avremo una Kung Fu Volpe, facendo sentire tutti gli adulti in sala un pochino più vecchi, ma così è la vita.

Tuttavia la trasformazione di Po in mentore e il viaggio dell’eroe della volpe convincono, anche grazie a una messa in scena come sempre colorata e movimentata, veloce e avvolgente come una corsa sulle montagne russe. 

Torna ancora e ben gradita la filosofia orientale tra i dialoghi sulla “spiritualità”. 

Si parla in positivo del valore della scuola e dell’insegnamento rispetto al “codice della strada” e alle sue scorciatoie, in un periodo storico in cui questi temi sono particolarmente difficili quando attuali, senza banalizzarli. 

Tornano le arti marziali in grande stile, con una “rentrè“ di tutti i principali villain affrontati da Po nel tempo, riuniti stile amarcord a celebrare anche loro l’evoluzione del Kung Fu Panda. 

Si torna per un attimo anche a parlare di genitorialità, con “i due padri di Po”, il Panda Li (Bryan Cranston) e Mr. Ping (James Hong) che diventano co-protagonisti di una simpatica sottotrama comica in cui si confrontano e supportano a vicenda, ripercorrendo insieme più o meno le stesse tappe di Po e Zhen. 

La ricetta funziona ancora, le musiche sono ancora di Hans Zimmer e il divertimento rimane garantito anche in questo clima più “malinconico”, da cambio della guardia.

Le animazioni si assestano qualitativamente sui livelli del terzo capitolo, di fatto rinunciando alla rivoluzione estetica che Dreamworks ha operato con Il gatto con gli stivali 2, dove la computer grafica ha assunto quasi un “espressionismo da stop-motion”. Ma la maggior parte del pubblico forse non sentirà il bisogno di questo “upgrade” e riuscirà comunque a godere “One more time”, “una volta ancora”, delle avventure del buffo Panda con la voce di Jack Black. Sperando che questa non sia davvero la sua ultima avventura.

Torna invece a doppiare Po in lingua italiana Fabio Volo, che rispetto a tutta l’energia che Black infonde da sempre nel suo panda resta sempre un po’ con il freno tirato a mille. Ma alla fine molti amano Po anche per la voce di Fabio Volo e in genere tutto il doppiaggio italiano fornisce una prova di buon livello, con un plauso per la Zhan di Alessia Amendola e lo storico Carlo Valli su Shifu.

Il Panda più amato dell’animazione torna al cinema in ottima forma, sebbene senza particolari stravolgimenti della formula originale: sarebbe un peccato perdersi il suo Kung fu e le sue mille battute sullo schermo panoramico di un cinema, tra pop corn e coca cola. 

Buona visione.

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venerdì 22 marzo 2024

Imaginary: la nostra recensione del nuovo film horror di Blumhouse, diretto da Jeff Wadlow, che ci fa guardare agli orsetti di pelouche con un certo timore

America dei giorni nostri. Jessica (DeWanda Wise) è una giovane autrice di libri per l’infanzia che si è affermata grazie a dei poco buffi ma tanto inquietanti racconti su dei “ragnetti”. Disegnati po’ alla Gaiman di Coraline e un po’ alla Tim Burton, sono nello specifico libretti colorati di scuro, tra il grigio e nero tenebra, con al centro l'avventura di una “ragnetta” che viene inseguita nottetempo da un ragno più grosso di lei e tanto arrabbiato, per un mondo sotterraneo e labirintico super tetro e pieno di porte chiuse. Un mondo che Jess ha “sviluppato positivamente” rielaborando un qualche suo irrisolto trauma infantile, di cui lei non ha più memoria, che è avvenuto probabilmente quando aveva meno di cinque anni e si trovava in una vecchia casa con giardino insieme al padre, uomo affetto da grave disturbi mentali oggi allettato in via permanente in ospedale. Un mondo che Jess “rivive sfuocato” quasi tutte le notti, in terribili incubi dove lei è ancora bambina e i ragnetti sono giusto più inquietanti di un 15% rispetto ai suoi disegnetti. 

Però sono libri che piacciono tantissimo ai bambini e Jess sta lavorano giusto a un seguito, in cui vuole sviluppare un “rapporto positivo” tra la ragnetta e il suo terribile e perenne inseguitore, che forse non è così cattivo ma solo un po’ “incompreso”. 

Oggi Jess frequenta una rockstar “tipo Jared Leto” di nome Max (Tom Payne) e ha deciso di iniziare a convivere con lui e le sue due figlie: l'adolescente Taylor (Taegen Burns), che la odia in quanto “intrusa”, e la più piccola e a lei abbastanza “indifferente” Alice (Pyper Brown), che comunque trova inquietanti i suoi ragnetti. Entrambe, per un gioco del destino, sono nate da una relazione di Max con una donna affetta da gravi disturbi mentali, ora internata. 

Certo la casa che hanno adesso è piccola, ma si può andare tutti a vivere nella casa con giardino dei traumi infantili di Jess, ora che il padre è sedato e allettato a pochi chilometri da loro. Del resto Alice ha più o meno cinque anni  quindi…”perché no”?

L’arrivo nella nuova/vecchia casetta è dei migliori. 

Jess straborda di creatività per il suo nuovo lavoro, Taylor esterna il suo odio per lei ma sta per i cavoli suoi dopo che si invaghisce del vicino di casa fessacchiotto Liam (Matthew Sato), Alice si affeziona a Teddy, un orsetto di pelouche dall’aria tetra che trova una notte, chiamata da una strana voce tetra, nella parte più tetra del sotto-cantina-nascosto della già tetra cantina standard della tetra casetta con giardino. Teddy potrebbe essere qualcosa di “buffo e utile” secondo tutti, una sorta di buffissimo amico immaginario per Alice, che la aiuta a vivere “al meglio e con creatività“ l’arrivo nella nuova casa. Jess non si ricorda di avere mai avuto quel pelouche, ma di fronte alla gioia di Alice, che gira nottetempo per casa con Teddy, disegnando e scrivendo roba inquietante sui fogli di carta e sulle pareti, cercando di portare a compimento uno strano rito demoniaco “di quelli che amano fare i bambini”, la novella mamma è tutta contenta. 

Del resto se servisse una mano c’è nel vicinato ancora la vecchia babysitter di Jess, Gloria (Betty Buckley), che vive una malatissima ossessione per il soprannaturale relativo all’immaginazione infantile, il cosiddetto “mesocosmo”, non è stata di nessun aiuto a Jess quando era piccola e sarebbe prontissima a “fare lo stesso”, con entusiasmo, per la nuova famigliola. 

Vista la calma apparente (???) Max, uomo di casa responsabile e presente, se ne parte in tour con la band mollando le figlie a Jess e non lo vedremo mai più fino alla fine del film. 

Vivendo a stretto contatto Jess e Alice scoprono presto per caso di avere qualcosa in comune, ossia dei lividi permanenti da maltrattamento sulle braccia. Jess e Alice iniziano a interagire soprattutto a livello creativo, partendo dai loro disegni, scambiandosi suggerimenti sulla espressività del ragno “inseguitore” della ragnetta. Forse anche la piccola sarà da grande una brava illustratrice.

Solo che la bambina non è sempre disponibile in quanto il suo Teddy la sta guidando nell’allestimento di un rituale che porta a una dimensione parallela che si trova sotto la loro abitazione. Un luogo labirintico e pieno di porte che forse Jess ha già visto e dimenticato. 


Ci sono diversi spunti interessanti in Imaginary. Abbiamo al centro della vicenda un meraviglioso orsacchiotto inquietante che ci viene raccontato espressamente come un “amico immaginario”,  rappresentandocelo tecnicamente come un “oggetto del mesocosmo”: parte di una realtà terza tra il mondo interiore e la realtà. La realtà viene a volte “mediata” dai bambini piccoli attraverso dei pupazzi a cui loro danno voce (o parlando con amici invisibili), per magari esprimere verso i genitori o insegnanti/adulti un dissenso nei loro confronti, che forse sono troppo timorosi di manifestare in prima persona, attribuendo quei pensieri “al pupazzo”. Nel quotidiano all’ora dei pasti un orsacchiotto può quindi sussurrare all’orecchio di un bambino frasi come “a Teddy i broccoli per cena non piacciono”. In psicologia si parla più propriamente di “oggetti transazionali” quando osservando i bambini giocare con dei pupazzi (magari donandogli vocine proprie e anche facendogli così “interpretare personaggi cattivi”), degli esperti, dai movimenti e toni, possono scorgere la “rappresentazione artistica” di un vissuto reale. Di più, a volte ciò che ha rivissuto attraverso il pupazzo il bambino, durante il “gioco”, può avere la forza di essere percepito come “esterno al bambino stesso”, permettedogli (o almeno “provandoci”) di archiviare un brutto evento come una storia passata e “separarsene emotivamente”. Uno stesso discorso si può fare sulla base dell’analisi dei disegni, su carta o sulle pareti di una cameretta, che a loro volta vanno a descrivere un contesto più di mille parole, agendo magari inconsciamente sugli ingranaggi della memoria con una emotività che traspare dal tratto o dai colori utilizzati. Imaginary ha nella sua scrittura originaria, nel suo “soggetto”, entrambi questi elementi suggestivi, rimandando con i suoi personaggi anche a situazioni reali di abusi compatibili (ma non esclusivi) con questo tipo di manifestazione “artistica”. 

Il rapporto tra Jess ed Alice avviene proprio attraverso i disegni dimenticati, dispersi, a volte ben nascosti e ritrovati nella stessa casa che entrambe vivono,  “leggono” e “abitano da bambine” in periodi diversi. Forse proprio il fatto di non essere più bambina pone un piccolo muro per Jess nella comprensione delle brutte cose passate. O forse si può dire che la sua immaginazione sia stata così florida da riuscire a riscrivere i traumi e farne un lavoro anche positivo, con i suoi racconti per l’infanzia. Forse anche Alice sta facendo, in un modo similare, uno stesso percorso. Le due hanno comunque una “affinità artistica” ed è vero che molto del bagaglio personale relativo al vissuto dell’infanzia può diventare un ottimo combustibile, per l’arte di futuri autori e artisti grafici. 


Se la piccola Alice proietta sull’orsacchiotto il suo stress, la più grande Taylor proietta sulla “matrigna Jess” tutto il risentimento che ha nei confronti della madre abusante: per Jess riuscire a instaurare un legame con lei equivale a riuscire prima di tutto a ricucire, pur idealmente, la sua personale immagine paterna, cercando di tornare in contatto con un padre che prima che “violento” è “malato”. 

Imaginary parla di una famiglia nuova che si sta “ricostruendo” con difficoltà da traumi passati separati, attraverso l’arte e attraverso la ricerca di un dialogo tra generazioni diverse. Una famiglia che sta “immaginando una sua forma”. 

Anche sul piano prettamente artistico, che annovera una ventina di professionisti impegnati nella realizzazione del piano “fisico e astratto”, grazie a un budget di 12 milioni di dollari (cifra consistente per la media Blumhouse, che ultimamente è comunque per trend  in ascesa), Imaginary presenta un comparto di tutto rispetto. Il piccolo e inquietante Teddy bear realizzato da Daniel Carrasco ha una sua precisa personalità ben resa dalla computer grafica e dagli effetti pratici, anche nei momenti in cui la sua fisionomia si deforma fino a farlo sembrare un inquietante grizzly da cartone animato horror. Il “mondo sotto la cantina” si apre favolisticamente con una maniglia disegnata, come in BeetleJuice e Il labirinto del fauno, nascondendo una realtà fatta di corridoi piene di porte chiuse come in Silent Hill, alternati a locali onirici quasi tratti da libri illustrati per bambini, pieni di colori, nuvole e cuscini vaporosi. Una realtà visivamente ricca ed elaborata che viene poi sintetizzata meravigliosamente proprio dalle illustrazioni attribuite al personaggio di Jess, realizzate da Logan Ledford. 

C’è quindi stata molta cura nella realizzazione del “soggetto”, sul piano visivo e anche nella scelta di attori adeguati. C’è stata tanta cura sul piano visivo. Buoni presupposti in gran parte infranti da quella che è stata la “direzione originale” su cui ha deciso poi di muoversi la trama. Ossia la domanda: “Ma se immaginare fosse di per sé, come attività, un male? “

È ponendosi questa domanda anti-intuitiva e “autodistruttiva”, specie perché sviluppata in un modo poco convincente, che un film con ottime premesse crolla sotto una montagna di cliché che annebbiano e incasinano il tutto, rinunciando all’orrore psicologico per battere caoticamente e con poca convinzione la pista di demoni, dimensioni parallele e bambini inquietanti. Del resto le produzioni Blumhouse e James Wan ci sono sempre andati a nozze con i pupazzi indemoniati in pellicole come Saw, Dead Silence, Annabelle e recentemente Five Night at Freddy’s. Ci hanno già parlato di dimensioni spirituali/parallele in Insidious, di drammi familiari attribuiti a basi soprannaturali in saghe come The Conjuring. Ci hanno rappresentato con tutti i mezzi di registrazione audio e video, con ogni tipi di pellicole a bassa e alta definizione, il feticismo di cogliere le presenze inquietanti che si nascondono nell’ombra di una casa comune, come  nella saga di fatto “capostipite” di Blumhouse stessa: Paranormal Activity. Pure i giochi comuni e quasi infantili dei più piccoli, come il “gioco della bottiglia” dei più grandicelli, sono in Blumhouse diventati un rituale acchiappa-demoni, sulla scorta delle nuove “challenge social”, in concept-movie come Obbligo o Verità, per altro sempre diretto dal regista di Imaginary Jeff Wadlow. Un Waldow a cui era stato affidato pure un controverso rilancio horror di Fantasy Island, di cui parleremo tra poco. 


È legittimo e pure in molti casi “riuscito al botteghino” capitalizzare sul fantasy e sull’horror, specie se come Blumhouse e Wan si dispone di un certo talento artistico e produttivo e si sanno sfornare franchise molto amati. 

Ogni tanto pure Blumhouse “si ripiglia” e dopo infinite saghe a base di fantasmi, pupazzi, pazzi e tavole Ouija fa qualcosa di diverso: è lì che arriva Whiplash, scoprono Daniel Chazelle e incassano dalla critica oltre che dal pubblico. Se vogliamo anche Whiplash è un horror sull'ossessione della perfezione artistica, un duello sulle immaginazioni di un adulto e di un ragazzo nella creazione di un loro “mesocosmo” attraverso l’arte.  Imaginary similmente dava durante la visione tutta l’idea di essere una riflessione sull’horror più che un horror a sé: poteva essere un nuovo Wiphlash, potevano venderci qualcosa di “diverso” quando Blumhouse ci aveva già venduto più volte storie di pupazzi, pazzi, dimensioni parallele e fantasmi in franchise più definiti, più “solidi” nella forma e sostanza. Così come è, Imaginary prova a fare, e male, un po’ tutte le cose insieme, creando una realtà alternativa meno affascinante di Insidious, con al centro un pupazzo bello ma meno riuscito di quelli di Five Nights at Freddy’s (dietro c’era del resto il Jim Henson’s Studio dei Muppets), con fantasmi nell’ombra meno incisivi di Paranormal Activity

Tutto per ripercorrere lo stesso “errore” di Fantasy Island, sempre scritto e diretto da un Wadlow fuori fuoco con medesimi intenti: sacrificare una narrativa “simbolica” riuscita (e spontaneamente funzionale) in ragione di una prospettiva “originale a tutti i costi” (e per questo artificiale), magari “a caccia di un nuovo franchise”, che anche qui non serve. Perché hai già tanta carne al fuoco che si può risolvere benissimo senza un soprannaturale quasi forzato, che pare anche qui inseguire disperatamente Lovecraft senza i mezzi giusti per farlo.

Per una precisa volontà produttiva in Blumhouse non c’è infatti quasi mai nei loro film splatter, sesso e tutto il “Body horror” necessario al misticismo “freudiano” di Lovecraft, anche perché con queste componenti i loro film sarebbero tutti VM18.

 E allora perché farlo?

Imaginary risulta quindi “interessante ma pasticciato”, cade a volte tragicamente nel “generico.” Confonde in positivo ma spesso è più confuso. Ben confezionato e recitato ma strozzato e abbozzato dalla scrittura. 

Anche se prendendolo per le sue singole componenti e suggestioni si può un po’ “volergli bene”, facendoci trascinare tra gli occhioni scuri e tristi del suo orsacchiotto, come facendo il tifo per la nuova famiglia che si sta formando sulla scena dai cocci di brutte vite passate “attraverso l’arte”, alla fine della visione si esce con una sorta di amaro in bocca. 

Lo stesso amaro che per motivi diversi ci ha accompagnato all’uscita di altri recenti lavori imperfetti di Blumhouse come Night Swim (buono per la messa in scena e attori e carente per tutto il resto) e il nuovo Esorcista (ben confezionato ma del tutto “affogato nel mainstream” dei luoghi comuni odierni, fino quasi a sembrare “riuscitamente autoironico”). 

Come consuetudine Blumhouse, la pellicola in un paio di settimane è già ampiamente rientrata dei costi almeno del doppio, pur senza un successo faraonico: La strategia produttiva della casa funziona sempre a quanto pare e i “collezionisti” magari saranno poi alla caccia anche all’home video. Si poteva fare di più e un po’ dispiace…

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